Addio Bruno Pizzul | La sua voce e gli italiani in una singolare forma di condivisione del dolore fra narratore e spettatore

Baggio posa il pallone sul dischetto e comincia a camminare all’indietro. Fa un passo, due passi tre passi. Fino ad arrivare a dieci. Fino a uscire dall’area di rigore. “Ecco Roberto” dice la voce che sbuca dagli altoparlanti della televisione. Poi più niente. Sullo schermo il dieci azzurro prende la rincorsa e calcia con il destro. Ed è lì che il tempo sembra fermarsi. “Alto – esclama la voce quando il pallone ha già sorvolato la traversa – il campionato del mondo è finito. Lo vince il Brasile“. È una scena diventata iconica. Perché mostra il lato umano e fragile di una della divinità del calcio, perché trasforma un errore individuale in una sconfitta collettiva. Ma soprattutto perché quelle immagini sono inscindibili dalle parole che le hanno raccontate in diretta. È stata questa la forza di Bruno Pizzul, il gigante dai modi educati e dall’eloquio forbito che dal 1986 fino al 2002 è stato l’aedo delle più cocenti delusioni azzurre. Il Mondiale perso in casa. La sconfitta in finale a Usa ’94. L’eliminazione a Francia 98’. L’Europeo scivolato dalle mani all’ultimo secondo nel 2000. Il cataclisma Byron Moreno nel Mondiale nippocoreano del 2002. Una serie di disgrazie una in fila all’altra che ha creato una singolare forma di condivisione del dolore fra narratore e spettatore. Fino a quando Bruno Pizzul da Cormons è diventato sinonimo stesso della Nazionale. Dove c’era uno, c’era anche l’altra. Tanto da diventare uno di casa per chi seguiva gli azzurri attraverso la bassa risoluzione del tubo catodico. Il suo modo di raccontare il calcio è divenuto presto inconfondibile. Appassionato e distaccato insieme, incisivo ma pacato, stemperava l’aumento del tono di voce durante le azioni più pericolose con lunghe pause che alleggerivano i momenti di studio e di manovra. La possibilità di non dover trasformare tutto in highlights gli ha permesso di creare espressioni divenute patrimonio condiviso senza mai degenerare nel tormentone. Ecco allora il “Partiti!” pronunciato al fischio di inizio, quel “Tutto molto bello” a sottolineare le azioni più pregiate, quel “Ed è gol!” a sancire il momento orgasmico del pallone che gonfia la rete. Ma anche quel confidenziale “Dino… Roberto… di nuovo Dino” usato durante Usa 1994 per non confondere fra loro i due Baggio.
E pensare che l’incipit della sua storia è stato scritto quasi per caso. Sua mamma era attentissima ai voti del figlio. Suo padre meno. Anzi, sognava che il ragazzo potesse aiutarlo in macelleria. Tanto da promettergli una bicicletta alla prima insufficienza. Il futuro, tuttavia, spingerà il giovane Bruno in tutt’altra direzione. Il richiamo del calcio è così forte da non poter essere ignorato. All’oratorio di Cormons però c’è soltanto un pallone. I bambini se lo litigano. Così il parroco decide di affidarne la gestione ai più grandi. Sono tutti juventini e tendono a escludere i più piccoli. A Bruno non resta che il ruolo di bastian contrario. Diventa tifoso del Toro. “Anche perché il capitano dei granata, allora, era Valentino“. Da ragazzo non lascia gli studi. Anzi, li continua. Prima il liceo classico. Poi la laurea in giurisprudenza. Il pallone continua a rimbalzare. Tanto che Pizzul viene tesserato dal Catania in Serie B. Gioca come centromediano. Ma dura poco. Sia a causa di un infortunio al ginocchio. Sia a causa della realtà oggettiva. “All’inizio sognavo – ripeterà in diverse interviste – poi ho capito che la mia passione era inversamente proporzionale al talento”. Il suo rapporto con il calcio sembra finire lì. Poi succede qualcosa di inaspettato. Mentre Bruno insegna alle medie si imbatte in un concorso alla Rai. Cercano programmatori. Solo che non si presenta nessuno, così Pizzul è invitato a partecipare. Nel secondo colloquio viene esaminato da Paolo Valenti, uno dei padri di Novantesimo Minuto. Il discorso vira sul calcio. Fino a quando al giornalista non si illuminano gli occhi. “Cerchiamo telecronisti, sei perfetto, lascia perdere la programmazione”. Nel 1969 Bruno entra in Rai. Nel 1970 gli viene affidata la prima telecronaca. Deve raccontare lo spareggio di Coppa Italia fra Juventus e Bologna. Solo che si gioca sul neutro di Como. Pizzul parte presto. Poi succede qualcosa di incredibile. Beppe Viola, un altro dei giganti del giornalismo sportivo italiano, lo convince ad andare a pranzo insieme. Così quando Bruno arriva allo stadio quando la partita è già iniziata da un quarto d’ora.
Sempre nel 1970 viene spedito in Messico per raccontare il suo primo Mondiale. Ed è lì che deve confrontarsi con un altro totem come Carosio. “Allora Nicolò ebbe un contrattempo personale (venne ingiustamente accusato di aver apostrofato come “negraccio” il guardalinee etiope durante Italia-Israele del 1970, ndr) e gli avevano tolto le partite dell’Italia – raccontò qualche anno fa in un’intervista al Fatto Quotidiano – Lo mandarono a seguire le partite a Guadalajara e mi dissero di andare con lui perché avevano paura che potesse fare qualche sciocchezza. Per me era un mostro sacro. Andai a parlare con lui e mi accolse molto benignamente. Mi chiese: ‘Ma davvero vuoi fare questo mestiere?’. Io risposi: ‘Voglio provarci’. Lui mi guardò e mi disse: ‘Non ti do un consiglio tecnico, ma quando sei in pubblico fatti vedere con un bicchiere di vino o brandy in mano. Almeno, quando dirai una fesseria potrai dire che era colpa dell’alcool’”. È l’inizio di una carriera straordinaria. Dopo il Mondiale Pizzul tiene banco con la sua Moviola, rompendo tutti i canoni della televisione dell’epoca. “Il periodo della mia carriera in Rai che mi ha divertito di più è stato quello fra il 1970 e il 1986, quando non facevo ancora la telecronache della Nazionale. Visto che ero stato designato come l’erede di Martellini avevo il diritto di scelta fra le migliori partite delle altre nazionali. Ho visto dei match incredibili”. È un periodo di grandi soddisfazioni, ma anche di dolori indicibili. Il 29 maggio del 1985 viene chiamato per commentare la finale di Coppa dei Campioni fra Juventus e Liverpool. Si gioca all’Heysel in una serata in cui il cielo diventerà rosso sangue. “È il dolore più angoscioso – raccontò poi al Corriere della Sera – Per la mia coscienza di uomo. Non è possibile andare a fare la telecronaca e dover parlare di 39 morti. È una memoria che talvolta vorrei cancellare ma non si può scordare ciò che dovrebbe portarci verso comportamenti più sereni e meno delittuosi”.
L’anno dopo arriva la promozione definitiva. Bruno Pizzul deve prendere il posto di Nando Martellini, l’uomo che nel 1982 ha fatto sognare una Nazione intera con il triplice urlo “Campioni del Mondo. Campioni del Mondo. Campioni del Mondo”. È un testimone che il friulano raccoglie senza mai sfigurare. La sua gentilezza gli consente di allacciare rapporti personali particolari. All’amicizia con Azeglio Vicini, che conosce fin da bambino, affianca quella con Enzo Bearzot. I due parlano in friulano, si siedono uno accanto all’altro, evitano formalismi. Tanto che qualcuno comincia a credere che il ct possa rivelare qualche segreto al telecronista. Peccato che i due parlassero solo di vitigni e vendemmie. Sono anni in cui l’Italia rincorre un successo che sembra sfuggirle sempre, come il road runner di Willy il Coyote. E anche Bruno si trova a raccogliere le sue stelle in fondo ai fossi. “Ho sempre sognato di raccontare una vittoria dell’Italia ai Mondiali – ha detto al Fatto – Mi sento di avere una lacuna per non esserci riuscito”. L’ultima sua possibilità evapora di fronte all’arbitraggio surreale di Byron Moreno. Poi Bruno va in pensione. Quattro anni dopo gli azzurri si arrampicano sul tetto del Mondo a Berlino. A raccontare quel successo sono altre voci. Sembra una beffa. Ma è anche lo scorrere del tempo. Perché quel modo distaccato e partecipe di raccontare il calcio si stava estinguendo in favore di una narrazione tutta nuova, dove il calcio era diventato un prodotto da vendere, dove i telecronisti erano parte integrante di uno spettacolo che doveva fare abbonamenti. “I telecronisti di oggi sono tutti bravi e non vorrei fare un’operazione di piaggeria– ha detto Pizzul qualche anno fa – Di sicuro viviamo in un momento dove è invalsa questa moda di spettacolarizzare tutto per raccontare il calcio. Magari a qualcuno può non piacere. Quando facevamo le prime radiocronache con Carosio, già ci accusavano di essere troppo verbosi, figuriamoci ora con due voci e i bordocampisti. Questo determina la necessità di raccontare la partita in maniera molto enfatica, sempre al di sopra delle righe. È un modo di fare che segue la moda del momento, anche se i tedeschi sono tornati alla telecronaca con una voce sola e l’intervento della seconda voce solo in determinati momenti”. Ed è per questo che in molti ricordano con nostalgia la sua voce. Ma anche le sue pause.