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Santanchè parla di libertà, ricchezza e tacco 12: ne emerge un classismo sprezzante

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di Davide Trotta

“Sono una donna libera, porto i tacchi da 12 centimetri, ci tengo al mio fisico, amo vestirmi bene”. In questo solenne ordito verbale sembra compiersi definitivamente il funerale della nostra classe politica: un’epigrafe da incidere sulla lapide di un parlamento che di malversatori e truffaldini ha potuto vantare nel tempo pletore illustri, che almeno adducevano argomenti un po’ più probanti di quelli della ministra Daniela Santanchè. La quale anzitutto si sarebbe dovuta peritare di spiegare il nesso consequenziale tra l’essere donna libera e l’addobbarsi di abiti firmati, con buona pace di tutte quelle donne che non possono permettersi Dolce&Gabbana e Gucci, e che evidentemente bisogna derubricare al rango di donne “schiave”.

Ma in questa specie di lapsus dolcegabbaniano traspare tutto lo sprezzante classismo di un establishment, la cui scala di valori appare più vicina a quelle dei migliori influencer, che sventolano soldi e macchine pacchiane nei loro video, che a quella di statisti morigerati, dotati di quel senso di misura necessario a capire i problemi della gente comune. E mentre un qualsiasi insegnante – che non veste bene e non porta tacchi alti – a scuola tenta di trasmettere valori alti e nobili – o almeno non così al ribasso – a ragazzi disperatamente in cerca di punti di riferimento, parallelamente nelle felpate stanze del potere si plasmano solidi modelli centrati su apparenza ed estetica crassa, estranei a qualsiasi valore di humanitas e pietas distillati da qualsivoglia pagina letteraria sui banchi di scuola.

Ma forse siamo noi comuni mortali a non essere abbastanza liberi da capire i vezzi della nostra classe politica tutta Dolce&Gabbana. Ma non siamo neppure così sprovveduti da non sospettare che dietro alle difficoltà nel risanare le condizioni economiche del Paese non vi sia anche una certa insensibilità, uno scollamento totale della classe dirigente con la realtà comune. Una classe dirigente arroccata a strenua difesa dei propri interessi di casta e poco interessata allo stato esangue delle famiglie.

Eppure l’enunciato di Santanchè nella sua articolazione pare evocare altro modello ben più collaudato, quello di una sua cara amica ora premier: “Sono Giorgia, sono una madre, sono cristiana”. Dopo la scuola di Atene sembra affacciarsi alla ribalta una nuova scuola, quella romana. Se differenti sono gli esiti, poiché “Giorgia” almeno puntò in quell’occasione su valori condivisi dai più anziché su elementi estetici che fanno incazzare i più, comune è la matrice: il puntare forte sull’essere, che in questi casi è più un apparire, e che si traduce in un urlo – verrebbe proprio da dire di Munch. Ne esce fuori una classe dirigente talmente squalificata da sentirsi delegittimata e avvertire la necessità di gridare in piazza o in Parlamento chi sono “loro”, come se alla gente comune gliene fregasse qualcosa.

Sembra quasi che i politici usino le loro tribune per confidare stati d’animo – ovviamente ricamati a convenienza – o condizioni personali ai cittadini che, non potendo più disporre dei drammi offerti da Barbara D’Urso, sicuramente sentono il bisogno di tornare a casa reduci da giornate di lavoro estenuanti e di consolarsi con la notizia che finalmente ci sono ministri che loro sì… possono veramente vestire bene.

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