Più di un cantante. Più di un artista. Una vera icona italiana. Peppino di Capri ha attraversato come forse nessun altro interprete i decenni del nostro dopoguerra. Dagli anni Cinquanta della ricostruzione, del Paese che si rialzava dalla tragedia della guerra, ai Sessanta di quel “boom” economico, sociale e culturale di cui Peppino è stato uno dei massimi, inconfondibili brand. E ancora agli anni Settanta, con il neo-romanticismo che attraversava la musica italiana, gli amori finiti ai quali brindare in solitudine a champagne. Ma anche negli ultimi quarant’anni Peppino di Capri ha saputo dire la sua nel panorama della musica. Si è consacrato come star internazionale (non per niente uno come Roberto Carlos chiude i suoi concerti con una versione di Champagne). E sono piovuti gli omaggi: dai musicisti del Neapolitan Power ai nuovissimi rapper della scena italiana. Senza dimenticare la tv (con la fiction “Capri”) e il cinema (“Natale con il boss”): tutti a confermare che Peppino di Capri è, appunto, un’icona senza tempo.
Un grande amore e niente più, in tutte le librerie dal 29 gennaio per Aliberti editore, è l’autobiografia, prima e unica, di uno dei “grandi” della musica, italiana e non solo (recordman non solo di dischi venduti, ma anche di bootleg: milioni e milioni in tutto il mondo). Qualcosa di più, in realtà, di un’autobiografia. Attraverso i suoi ricordi personali, raccolti insieme ad Alessandro Di Nuzzo e Fulvio Iannucci, Peppino racconta il Paese dal 1939 – il suo anno di nascita – a oggi. Successi, cadute, rinascite; amori e disamori. Una vita in continua trasformazione, così come lo è stata la società italiana del dopoguerra, con i suoi rapidi (a volte troppo rapidi) cambiamenti.
Senza dimenticare che Peppino è prima di tutto uno straordinario interprete. Lo riconosce un collega del calibro di Andrea Bocelli, che ha concesso un’intervista per questo libro. “Peppino ha scritto una pagina importante della nostra storia musicale, il suo timbro vocale è da sempre una firma inimitabile. È uno chansonnier che ha segnato, con il suo stile inimitabile, con il suo modo speciale di fraseggiare, molte generazioni”. Prima di tutto un musicista, dunque. Come Peppino ha sempre sognato e voluto essere: sin da quando, bambino cresciuto con il padre lontano nella Capri in piena guerra, suonava il pianoforte dell’hotel Tiberio di Capri davanti ai generali alleati, increduli ed entusiasti per il piccolo prodigio italiano.
Pubblichiamo, per gentile concessione dell’editore, due estratti:
Le sorelle tedesche
«Capri è sempre stata un luogo di raccolta di personaggi particolarissimi, estrosi, un po’ matti», spiega Peppino. «Gente spesso famosa, quasi tutti ricchi o ricchissimi naturalmente, che voleva stare lontano dalle luci dei riflettori, voleva isolarsi. Però poi il piccolo mondo dell’isola diventava per loro una specie di palcoscenico, su cui ognuno di questi personaggi si esibiva: andando per strada, stando al Gran Caffè o in un angolo della piazza».
Nella Capri cosmopolita del Novecento, la colonia più numerosa di stranieri è senza dubbio quella tedesca: tanto è vero che Capri a un certo punto fu detta “la Klein-Deutschland”, la Piccola Germania. Tutti estrosi, tutti un po’ matti o quasi, questi tedeschi capresi. Il loro luogo di ritrovo era il famoso Caffè Zum Kater Hiddigeigei della famiglia Morgano, proprio al centro del paese. Un misto di birreria, emporio, club di artisti, dove potevi trovare di tutto: dai giornali stranieri alla birra tedesca, ai colori per le tavolozze dei pittori che, più o meno talentuosi, vivevano sparpagliati per tutta l’isola.
Anche nella vita del piccolo Peppino Faiella ci sono i tedeschi-capresi. Anzi, le tedesche: due curiose sorelle che vivono accanto a loro.
«A fianco a casa mia, a palazzo Santa Teresa, c’erano due signorine tedesche. Due sorelle, sempre vestite di tutto punto, profumate che lasciavano la scia quando passavano per andare in piazzetta e farsi invitare a questo o a quel tavolino del caffè. E non erano le sole esponenti della stirpe germanica.
C’era anche Umbertino – un tale che si chiamava così, o perlomeno che noi chiamavamo Umbertino, e che passava sempre davanti a casa nostra. In realtà di cognome faceva von Raden. lo da bambino sospettavo che fosse una spia. Non faceva nulla nella vita, doveva essere ricco, forse un nobile, come tutti gli stranieri capresi d’adozione.
Anche lui era musicista: quando passava da noi, si faceva dare un vecchio contrabbasso che avevamo in casa, tutto scassato; si metteva sull’uscio e cominciava a suonare qualcosa con noi. Questo accadeva tutti i santi giorni, eh…
Per tornare alle signorine, queste due tedesche sfottevano sempre quando ci passavano davanti per andare in piazzetta. Si dicevano fra loro: “Hai saputo, Giovanna? Sta tornando Bernardo”… intendendo mio padre, che era lontano da casa, e ridacchiavano».
C’era poco da ridere, in realtà. Peppino era un bambino che ancora non aveva conosciuto suo padre.
«Partì militare allo scoppio della guerra. Era in una postazione di avvistamento in Sardegna, quando fu preso prigioniero. A quel tempo, quando chiedevo di fare o di avere qualcosa, tutti mi ripetevano: “Sì. Quando arriva papà”.
Io aspettavo quel giorno, ma quel giorno non veniva mai.
Ricordo che mia madre, quando era in casa a cucinare o a fare i lavori, cantava sempre. Cantava le più belle canzoni napoletane; a squarciagola, per farsi sentire dalle signorine tedesche. Forse per rivalsa, per far vedere che lei era forte e che sapeva che il marito sarebbe tornato.
Fatto sta che, una sera, al tramonto, me lo ricordo come se fosse adesso… mentre le signorine passavano davanti alla porta ripetendo la solita frase: “Ma Bernardo torna o no?” si sentirono rispondere da dentro la casa: “Ma andate a fanculo!” Era mio padre, che era tornato davvero. Tornato dalla prigionia senza niente, solo un grosso baule militare con non so che cosa dentro.
Gli anni del grande successo
Nel frattempo Peppino e Roberta, coppia oggi si direbbe “mediatica” quant’altre mai nell’Italia di quegli anni, si sono sposati.
«Nel 1961, in Versilia nella chiesa di Focette. Testimone di nozze Sergio Bernardini, il patron della Bussola: era lì, un anno prima, che era esploso definitivamente il “fenomeno Di Capri”. Cinquecento invitati, un altro paio di centinaia di fan assiepati fuori dalla chiesa, decine di fotografi, i cineoperatori della Settimana Incom che riprendono la cerimonia, per poi mandarla in tutti i cinema italiani prima delle proiezioni. Io credevo che fosse offerto, il ricevimento. Alla fine mi avvicinano e mi fanno: “Signor Di Capri, il conto. Sono quattro milioni e mezzo!”».
«Amavamo la bella vita, in quegli anni. Quando eravamo a Capri, Roberta faceva venire da Roma (in elicottero!) la porchetta migliore della capitale, fatta da un ristorante di via Boncompagni. Spendevamo senza problemi. Roberta andava pazza per i mobili di valore.
Il nostro viaggio di nozze finì a Santa Margherita Ligure, in uno dei negozi di antiquariato più belli e costosi d’Italia. Roberta comprò due lumi francesi, stupendi.
Quando tornammo a Capri, ci ritrovammo questi due pezzi di gran pregio davanti alla porta di casa: non ricordavamo neanche di averli comprati».
In mezzo a tutto questo enorme successo – anche economico: a proposito, quanto prendeva Peppino dalla vendita dei 45 e dei 33 giri? «Dal’58 al 69, il mio contratto con la Carisch prevedeva che prendessi tra il tredici e il quindici per cento del prezzo incassato dalla casa discografica sulle vendite fisiche del disco» – Peppino resta sempre un ragazzo “normale”. Con qualche “sfizio” in realtà che ama togliersi, vista la disponibilità finanziaria.
Le automobili fuoriserie, per esempio. Sono passati appena pochi anni dalle lambrette rosa e dalla Fiat 1100 (neanche sua, poi, era di Lello Arzilli) con la quale percorrevano avventurosamente lo Stivale per andare alla Carisch di Milano.
Adesso, però, è il tempo delle Ford Thunderbird, di qualche Ferrari e di qualche Lamborghini.
«La Thunderbird era un mito. Era l’auto di Fred Buscaglione, quella con cui disgraziatamente si andò a schiantare in quell’alba dell’inverno del ’60 a Roma. Io mi aspettavo lo stesso modello, del 1956, con la ruota di scorta sul paraurti posteriore. La mia invece era del 1958, bianca, cabriolet e con i sedili rossi. La più brutta Thunderbird che hanno fatto, un vero mostro. Un’americanata. Fu una delusione quando la vidi. Però me l’aveva regalata per metà la Carisch. “Certo, con quello che vendevano potevano pure regalarmela tutta”, pensai…
Ma andava bene così, erano stati comunque generosi.
La Ferrari? Sì l’ho avuta. Non solo: sono anche andato in auto con Enzo Ferrari. Un’esperienza indimenticabile.
Il Drake guidava la sua Ferrari nera, un’auto esclusiva che aveva solo lui. Correva come un pazzo, prendeva le curve della collina di Maranello come un pilota di Formula 1. Considerate che all’epoca c’erano solo cinque metri di guardrail, e poi altri cinquanta metri di strada senza protezione. Io, che invece sono molto prudente alla guida, ero letteralmente terrorizzato. Speravo che finisse la benzina; non vedevo l’ora di arrivare.
Alla fine, quando ci fermammo, Ferrari mi chiese:
“Piaciuto?” Incominciammo a chiacchierare e alla fine comprai una Ferrari azzurro metallizzato.
Ho avuto anche una Lamborghini. La 400 GT. Ne costruirono solo poco più di duecento modelli, dal ’66 al ’69. Ricordo che una sera venne il signor Lamborghini in persona sotto il palco della Bussola, mentre stavo cantando. Mi disse: “Lei è un uomo fortunato”. Aveva saputo che mi ero comprato quel gioiello. In effetti, era costata l’ira di Dio per l’epoca. Una volta sono arrivato a fare i 320 chilometri all’ora con quella macchina. Poi mi dissi: “Ma chi m’o ffa fa’ di rischiare la vita?” E così passai alle Mercedes.