L’ultima conferma che l’eredità lasciata da Raffaele Fitto al neoministro per il Pnrr, gli Affari europei, il Sud e le politiche di coesione Tommaso Foti è tutt’altro che invidiabile arriva dalla nuova relazione semestrale della Corte dei Conti al Parlamento sullo stato di attuazione del piano. Al netto del corto circuito per cui nel frattempo una proposta di legge dello stesso Foti punta a indebolire il controllo preventivo di legittimità dei magistrati contabili, il documento evidenzia che l’accelerazione nella spesa dei fondi rivendicata da Fitto prima di lasciare l’incarico per diventare commissario europeo ha scalfito di poco i ritardi accumulati finora. Se formalmente gli obiettivi amministrativi e i traguardi quantitativi sono stati raggiunti, motivo per cui Fratelli d’Italia ostenta soddisfazione, l’avanzamento finanziario resta insufficiente. I soldi utilizzati al 30 settembre 2024, spiega la Corte, si fermano a 57,7 miliardi: il 30% delle risorse del Piano e circa il 66% di quelle che erano programmate entro fine 2024 in base ai piani iniziali. Un quadro che rende urgente per il governo Meloni negoziare con la nuova Commissione Ue il rinvio della scadenza del 2026.
Rispetto al valore di fine 2023, pari a circa 45,1 miliardi, l’aumento registrato nei primi nove mesi dell’anno è di 12,6 miliardi, il 30% di quanto previsto e circa il 60% delle stime più contenute del Documento programmatico di bilancio di ottobre 2024. Lì si stimava che le spese finanziate da sovvenzioni e prestiti della Recovery and resilience facility sarebbero ammontate allo 0,9% del pil, circa 20 miliardi, contro i 44 messi nero su bianco nel cronoprogramma del governo stesso. Ora pare difficile arrivare a metà di quell’obiettivo, anche se Fitto prima di mettersi il cappello da controllore dei piani di ripresa altrui aveva garantito che quota 22 miliardi era a portata di mano. Uno dei grafici della relazione mostra che per il 79% delle singole misure comprese nel Piano è stato speso meno del 25% della dote a disposizione. Il 57% non arriva al 10% mentre solo l’8% ha superato la boa del 50% della spesa preventivata.
La tabella sulla spesa sostenuta missione per missione permette di rendersi conto dei comparti che scontano i maggiori ritardi e di individuare le amministrazioni competenti. Maglia nera per Transizione 5.0, le agevolazioni fiscali per investimenti innovativi in digitalizzazione, transizione green e formazione del personale gestite dal ministero per le Imprese e il Made in Italy di Adolfo Urso: inserito in corsa nel Pnrr con la revisione del 2023, il piano è operativo da agosto ma non è mai decollato causa difficoltà burocratiche. La relativa missione, M7C1, è a zero spesa sostenuta. Segue con il 6% la digitalizzazione della catena logistica dei porti, che fa capo al Mit di Matteo Salvini. Che ha anche la responsabilità di 13 investimenti ferroviari che procedono invece in linea con il cronoprogramma: al 30 settembre la spesa ammontava a 8,9 miliardi, il 39% della dotazione complessiva nell’arco del piano e il 92% di quanto andava messo a terra entro fine 2024. Ma solo il 4% dei progetti è arrivato al collaudo e il 20% mostra ritardi sulla tabella di marcia.
La classifica delle performance più scarse prosegue con il 10% – rispetto al cronoprogramma 2020-2024 – impiegato a valere sui fondi per agricoltura sostenibile ed economia circolare, missione con cui il ministero dell’Ambiente di Gilberto Pichetto Fratin dovrebbe migliorare la gestione dei rifiuti e dell’economia circolare, rafforzare le infrastrutture per la raccolta differenziata, ammodernare gli impianti di trattamento rifiuti, sviluppare una filiera agricola e alimentare sostenibile. Non ha fatto molto meglio Fitto nel gestire i progetti per lo sviluppo del Mezzogiorno, “compresi investimenti di contrasto della povertà educativa e il rafforzamento delle Zone Economiche Speciali“, che costituiscono la componente 3 della missione 5: l’ex ministro è volato a Bruxelles avendo speso solo 48,2 milioni, il 14% di quanto atteso entro fine 2024 e il 5% del totale.
Molto bene è andato invece il capitolo dell’efficientamento energetico degli edifici (M2C3) con un 97% di spesa sostenuta nell’orizzonte 2020-2024. La Corte dei Conti aggiunge che i dati ancora parziali pubblicati dall’Enea consentono di ritenere che gli obiettivi della misura, in termini di risparmio energetico e di emissioni di CO2, siano stati “ampiamente superati”. Ma un’analisi costi-benefici mostra che il tempo di ritorno dell’investimento del Superbonus è “abbastanza elevato (circa 35 anni), non coerente con l’orizzonte di vita utile degli interventi incentivati”. Conclusione confermata se si guarda al costo per lo Stato al netto delle maggiori entrate fiscali generate dalla misura. Tra l’altro la maxi agevolazione del 110% ha sì consentito di ridurre i consumi di circa 2 milioni di tonnellate equivalenti di petrolio, ma quel risultato è “appena sufficiente per rispettare gli obiettivi del vecchio Piano nazionale energia e clima“, mentre “non appare del tutto sufficiente ad assicurare il conseguimento degli obiettivi fissati al 2030 dal nuovo Piano”.
La Corte sottolinea poi i notevoli problemi degli investimenti in edilizia residenziale pubblica e sociale, parte della missione dedicata alle infrastrutture sociali, famiglie, comunità e terzo settore (M5C2). Le misure, che puntano alla riqualificazione e manutenzione più che a realizzare nuove costruzioni, “evidenziano difficoltà realizzative nel caso di molti progetti”. Sui 967 progetti che rientrano nel Piano innovativo per la qualità dell’abitare, 361 “presentano ritardi rispetto alla relativa programmazione temporale” e “circa l’80% di questi ritardi si concentra nelle fasi precedenti l’avvio dei lavori”. Risultato: “È difficile pensare che ciò possa rappresentare un’inversione di tendenza nei servizi offerti ai cittadini, a meno che ulteriori programmi in questo senso proseguano, ampliando il lavoro svolto”.
Come detto, questo quadro di ritardi preoccupanti va a braccetto con un formale rispetto degli obiettivi europei. Sulle riforme – 7 su 72 – che sono destinatarie di un finanziamento da parte del
Piano pesa però il ridotto avanzamento finanziario. La spesa sostenuta dalle Amministrazioni responsabili in rapporto al finanziamento programmato “si attesta al 4% (circa 278 milioni su 6,9 miliardi)”, dice la relazione. “In 3 casi su 7 la spesa sostenuta dichiarata dalle Amministrazioni responsabili è stata pari a zero, mentre nei restanti casi il dato si è attestato a valori inferiori al 31 per
cento”. A pesare sono soprattutto la riforma delle politiche attive per il lavoro, che assorbe l’80% dei 6,9 miliardi in ballo, e quella degli alloggi per studenti, a cui è destinato il 17% della cifra. La prima “si trova al 40 per cento del percorso di obiettivi europei”. La riforma chiamata a risolvere l’emergenza abitativa che coinvolge gli universitari ha visto finora, a fronte di 1,198 milioni a disposizione, una spesa di 444 milioni di cui però solo 13,5 derivano da risorse del Pnrr.