Su una locandina del 1522, affissa sulla pensilina di una fermata d’autobus, qualcuno ha corretto a penna il messaggio “diamo alle donne i mezzi per combattere la violenza” con la frase “diamo agli uomini la capacità di non essere violenti”. Questo dovrebbe essere il punto di vista giusto per affrontare il tema della violenza maschile contro le donne invece di continuare a invitare le donne a denunciare, ad avere il coraggio di parlare (quando spesso sono invitate a tacere) o a lasciare il violento “al primo schiaffo”. Si tratta di messaggi sbagliati per diversi motivi: la tipologia della violenza denunciata più spesso dalle donne, è quella psicologica, e consiste in manipolazioni, minacce, isolamento e controllo, stalking.

Le donne non chiudono la relazione con l’autore di violenza perché sanno aumenterà il rischio di azioni ancor più violente, una paura che non è affatto infondata, o ancora non lasciano il partner perché non sono economicamente indipendenti, e hanno perso l’autosufficienza economica, a causa delle violenze. Ma ci sono altri motivi per cui le donne non chiudono una relazione col violento.

Può accadere, ancora oggi, che chiedano aiuto ma ricevano risposte scorrette o peggio, una vittimizzazione secondaria. Recentemente, una donna che era andata a denunciare una situazione di maltrattamento psicologico, si è sentita dire dalle forze dell’ordine che se non c’era un referto medico era inutile fare la denuncia. Un’informazione sbagliata. In un’altra occasione, una donna che voleva denunciare il marito che l’aveva stuprata si è sentita dire di pensarci bene perché avrebbe potuto perdere l’affidamento dei figli. Le inconsapevoli alleanze e collusioni con una cultura che normalizza, giustifica la violenza e attribuisce una parte della responsabilità alle donne, resiste nella società italiana e la incontriamo anche nei luoghi istituzionali.

In realtà, una denuncia ben circostanziata e una magistratura capace di distinguere un contesto di violenza da uno di conflittualità, possono portare al riconoscimento della violenza e alla condanna di chi l’ha commessa e a misure cautelari anche senza un referto medico, come nel caso di violenze psicologiche. La Cassazione lo ha ribadito con l’ordinanza 4343 del 30 gennaio 2014: “le dichiarazioni della persona offesa, vittima di reato, possono essere assunte anche da sole, come prova della responsabilità dell’imputato non necessitando le stesse di riscontri esterni”.

Altrettanto scorretto è pensare che quando le violenze sono solo psicologiche, ci sia meno rischio dell’uccisione della donna. Non è affatto così. Una situazione di maltrattamento psicologico, controllo, vessazione, umiliazione, minaccia senza che sia mai stata commessa violenza fisica, può evolvere fino all’uccisione della partner, soprattutto quando questa si sta sottraendo al controllo. Per questo è fondamentale la formazione, come diciamo da anni, di quei soggetti che entrano in contatto con le vittime ma anche una maggiore presa di coscienza collettiva.

Le donne di anno in anno, sono sempre più consapevoli e capaci di riconoscere azioni di prevaricazione, e quando chiedono aiuto è importante che ricevano risposte adeguate e soprattutto un contesto sociale che le sostenga. I Centri antiviolenza della rete D.i.Re hanno verificato che le richieste di aiuto, rispetto all’anno precedente, sono aumentate del 14%. L’Istat ha rilevato che le donne rimangono meno tempo, in relazione con un partner maltrattante: da una media di 10 anni ad una media di sei anni. Ma se si promettono risposte efficaci e sostegno incondizionato, occorre coerenza. Non è ammissibile che ci siano resistenze così forti contro lo svelamento delle violenze, e pregiudizi e stereotipi che minano la credibilità della donna, soprattutto se l’autore di violenza è ben inserito nella società e non è un criminale o un immigrato illegale.

Nel caso di violenza sessuale commessa al di fuori delle relazioni di intimità, quella da parte di sconosciuti o amici o partner occasionali, ovvero di quelle situazioni che spesso finiscono in cronaca, le vittime possono scegliere di lasciare le loro città per la rancorosa reazione di una parte dell’opinione pubblica che quando si tratta di “bravi ragazzi” italiani, si schiera con gli stupratori.

Bisogna accelerare il passo e cambiare il paradigma e per questo in occasione del 25 novembre, l’associazione nazionale D.i.Re – Donne in Rete ha lanciato la campagna “La violenza è una scelta, fermarla una responsabilità”. Invece di chiedere alle donne ostaggio dei violenti: “Perché non ha reagito?”, “Perché è rimasta in silenzio”, “Perché non ha denunciato prima?” ci si deve domandare “Perché lui ha scelto di agire violenza?”, “Perché chi ha visto non ha parlato?”, “Perché il sistema legale non tutela abbastanza le donne?”.

Tutti e tutte hanno la responsabilità di agire e per questo D.i.Re invita a costruire una società libera dalla violenza.

@nadiesdaa

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Violenza contro le donne, la storia di Mariagrazia: “Sputi, calci e schiaffi. Non mi credevano, ora sono rinata. Possono farcela tutte”

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