di Sonia Surico

Il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano ha deciso di farsi da parte. Con una lettera dal tono melodrammatico, ci informa di aver rassegnato “in termini irrevocabili” le sue dimissioni. “Sono consapevole – scrive – di aver toccato un nervo sensibile e di essermi attirato molte inimicizie avendo scelto di rivedere il sistema dei contributi al cinema ricercando più efficienza e meno sprechi. Questo lavoro non può essere macchiato e soprattutto fermato da questioni di gossip”.

Ecco servito il consueto copione vittimistico a cui ci ha abituato la politica italiana.

Sangiuliano non è il primo né sarà l’ultimo politico a piangere sul latte versato, accusando i media e la “macchina del fango” di averlo colpito ingiustamente. Lo abbiamo già visto mille volte.
Ma l’attenzione si sposta inevitabilmente su un’altra figura: Daniela Santanchè. Imputata in due procedimenti giudiziari, la ministra del Turismo è ben lontana dal dimettersi. Due processi aperti, eppure è ancora lì, seduta sulla sua poltrona ministeriale come se nulla fosse.

La domanda è inevitabile: cosa aspetta Giorgia Meloni a chiedere anche le dimissioni di Santanchè? Le accuse contro di lei sono solo chiacchiere da corridoio o insinuazioni di cattivo gusto? Parliamo di processi in corso, di reati che, se confermati, rappresenterebbero una macchia indelebile per tutto l’esecutivo.

Sangiuliano è andato. Adesso tocca agli altri. In un Paese come l’Italia, segnato da anni di scandali e corruzione politica, l’ultimo regalo che ci si può permettere è un altro caso di impunità sotto gli occhi di tutti.

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