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La battaglia (vincente) per Assange è anche quella per un giornalismo libero a casa nostra

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Julian Assange è finalmente libero. Dopo anni di isolamento dentro l’ambasciata dell’Ecuador e poi di carcerazione nel Regno Unito, i suoi legali hanno siglato un accordo con il dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti che gli ha permesso di lasciare il carcere inglese di massima sicurezza di Belmarsh, dove era detenuto dall’aprile del 2019, e di volare verso il suo Paese, l’Australia.

Era accusato dagli Stati Uniti di aver violato l’Espionage Act, una vecchia legge contro lo spionaggio che gli faceva rischiare una pena fino a 175 anni di carcere. Il fondatore di WikiLeaks non è una spia: ha rivelato al mondo il lato oscuro del potere in Occidente, i crimini di guerra degli Usa in Iraq, le violazioni dei diritti umani nella prigione di Guantanamo, i segreti inconfessabili della diplomazia americana.

Ha salvato la dignità dell’Occidente, o almeno ci ha provato, cercando di dimostrare che la democrazia può autocorreggersi, può restituire alla trasparenza anche ciò che viene nascosto perché indicibile. Ha dimostrato che dentro le democrazie ci sono forze che denunciano le storture delle democrazie. Il lavoro suo e di WikiLeaks era un pericolo per il potere politico e militare che non vuole siano svelati i suoi crimini. Per questo il potere lo ha inseguito e perseguitato per anni.

Ora era in attesa della sentenza di una Corte inglese che poteva accettare la sua richiesta di appello, facendo iniziare un nuovo processo nel Regno Unito, oppure rigettarla, consegnandolo agli Stati Uniti, ma forse non prima di un ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo.

Di fronte a queste prospettive incerte, gli Stati Uniti hanno accettato un accordo. Questo prevede che Assange si dichiari colpevole di uno solo dei capi d’accusa che gli sono contestati, per aver ottenuto e diffuso in modo illegale alcuni documenti considerati sensibili per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti. In cambio, il dipartimento di Giustizia ha accettato che Assange sia giudicato da un tribunale federale fuori dal territorio degli Stati Uniti (a Saipan, nelle isole Marianne Settentrionali, un arcipelago nell’oceano Pacifico posto comunque sotto la giurisdizione Usa).

Con Stella Assange

Secondo l’accordo, la condanna di Assange a cinque anni di carcere è sanata dagli anni già scontati in cella nel Regno Unito, dunque la sentenza del giudice di Saipan è il lasciapassare verso la libertà in Australia, dove Assange potrà ricongiungersi alla moglie Stella e ai suoi figli. Quella stabilita dall’accordo è una soluzione di compromesso, ma che toglie agli Usa il ruolo di accanito persecutore di un giornalista difeso da milioni di persone in tutto il mondo in nome della libertà d’espressione; e ad Assange restituisce finalmente la libertà.

È un momento in cui, anche in Italia, ci rendiamo conto che i poteri attaccano con arroganza il giornalismo libero. Querele temerarie, richieste intimidatorie di risarcimento danni, censure agli scrittori, la Rai occupata dai partiti di governo, direttori cacciati, articoli censurati (come è successo nelle scorse settimane all’Espresso), proposte governative di leggi bavaglio. La grande battaglia (vincente) per la liberazione di Assange è anche la nostra battaglia per un giornalismo libero a casa nostra.

[Foto: Milano – Presidio Anything to Say? Free Assange Now!, Lapresse]

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