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Martina Rossi “corresponsabile” della sua caduta mortale per sfuggire alla violenza. La richiesta choc dei condannati al giudice

Martina Rossi “corresponsabile” della sua caduta mortale per sfuggire alla violenza. La richiesta choc dei condannati al giudice
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Tredici anni dopo la morte di Martina Rossi e un anno dopo la condanna definitiva inflitta a Luca Vanneschi e Alessandro Albertoni per la tentata violenza sessuale di gruppo che causò la caduta della ventenne dal balcone dell’hotel, gli avvocati difensori dei due giovani (oggi in semilibertà) chiedono il riconoscimento di “una certa responsabilità” da parte della vittima nella sua caduta mortale.

La fuga della studentessa dalla camera dei due aretini condannati per il tentativo di violenza, insomma, andrebbe considerata come corresponsabilità secondo i legali dei due uomini (già scampati grazie alla prescrizione dall’accusa sull’omissione di soccorso). La tesi è stata sostenuta durante le udienze in corso per quantificare l’entità del risarcimento del danno presso il Tribunale di Arezzo. A tredici anni dai fatti, gli avvocati di Albertoni e Vanneschi chiedono una nuova perizia sulla dinamica della caduta, sostenendo che Martina avesse una parte di responsabilità nel superare la ringhiera del balcone nel tentativo di sfuggire alla presunta violenza sessuale.

“È un’aberrazione dal punto di vista giuridico – commenta a caldo Bruno Rossi, papà di Martina, riprendendo i termini utilizzati dai loro legali nel commentare la richiesta della controparte – Fin dall’inizio quei due giovani non fanno che mentire, sembra quasi che i due che hanno ucciso mia figlia, non abbiano preso coscienza di quanto hanno fatto e non meritino alcuna punizione”. I genitori di Martina Rossi, che in passato hanno già chiarito che per loro sia principalmente una questione di giustizia e riduzione del rischio che fatti analoghi possano ripetersi ribadisce che “certamente questi ragazzi devono rispondere anche sul piano civile, oltre che dal punto di vista penale, in base alle responsabilità che sono già state appurate. Ma mia figlia è morta. La mia sensazione è che vengono fatti questi tentativi quasi come non fosse successo niente”.

È il 3 agosto del 2011 quando la ventenne genovese precipita dal sesto piano di un hotel a Palma di Maiorca, mentre si trova in vacanza con due amiche. Scivola nel tentativo di scavalcare dal terrazzino della camera a quello a fianco e, sbrigativamente, le autorità spagnole archiviano il caso con l’ipotesi di suicidio. Ci sono voluti dodici anni e la tenacia dei genitori per appurare la realtà dei fatti, rigettando la versione dell’”incidente” a cui i genitori e tutti quelli che conoscevano la ragazza non hanno creduto neanche per un momento. Al ritorno dalla notte in discoteca, la ragazza sarebbe salita in camera dei due giovani perché nella sua le amiche erano con gli altri due aretini della compagnia.

Venti minuti dopo i due cittadini danesi alloggiati nella camera accanto racconteranno di aver sentito un urlo straziante. “Martina non muore sul colpo – come racconterà suo papà Bruno confrontandosi con la durezza delle carte processuali – Sono le 6.45 del mattino quando precipita in una vasca e, per 40 minuti, nessuno scende a prestarle soccorso”. Il corpo di Martina verrà trovato a terra senza ciabatte né pantaloncini, con evidenti segni sul corpo. Nel 2018 il reato di “morte come causa di altro reato” finisce in prescrizione, come avvenuto in precedenza per “l’omissione di soccorso”, lasciando come unica accusa, poi confermata fino all’ultimo grado di giudizio, la tentata violenza sessuale di gruppo.

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