Il giorno dopo essersi consegnati in carcere per effetto della sentenza definitiva per il caso di Martina Rossi, Alessandro Albertoni e Luca Vanneschi, hanno ottenuto il regime di semilibertà. I due trentenni aretini condannati in via definitiva a tre anni per tentata violenza sessuale di gruppo ai danni della giovane che era morta cadendo da un balcone per sfuggire all’abuso. Detenzione in regime di semilibertà: è quanto è stato disposto dal tribunale di sorveglianza di Firenze per Alessandro Albertoni e Luca Vanneschi, i due trentenni aretini condannati in via definitiva a tre anni di reclusione per tentata violenza sessuale di gruppo ai danni di Martina Rossi, morta il 3 agosto del 2011 nel tentativo di sfuggire a uno stupro. Gli altri reati di cui erano accusati i due uomini, l’omissione di soccorso e morte in conseguenza di un altro reato sono andati prescritti.

L’udienza si è svolta il 29 settembre scorso, ieri la decisione è arrivata in procura generale che ha emesso il provvedimento di esecuzione: Albertoni e Vanneschi si sono poi costituiti nel pomeriggio al carcere di Arezzo. Il regime di semilibertà è una misura alternativa che prevede il lavoro esterno al carcere e la possibilità anche di soste a casa, secondo un programma da stabilire, con rientro in carcere per la notte. Riguardo ad Albertoni e Vanneschi, nell’udienza davanti al tribunale di sorveglianza, il pg aveva chiesto il rigetto delle misure alternative, le difese di entrambi i condannati quella invece dell’affidamento ai servizi sociali. Il tribunale ha poi deciso per la detenzione in regime di semilibertà. Il verdetto definitivo della Cassazione era arrivato termine di un complicato percorso giudiziario.

A seguito della sentenza di primo grado, gli avvocati dei due giovani avevano presentato appello. Nel 2018 l’accusa di morte come conseguenza di altro reato finisce in prescrizione, come avvenuto in precedenza per l’omissione di soccorso, lasciando in piedi solo l’ultima accusa. Per questo motivo, anche a seguito di varie polemiche, la presidente della Sezione di Corte d’Appello decide di anticipare le udienze e la sentenza di secondo grado arriva il 9 giugno 2020. Per i giudici Martina non stava fuggendo da uno stupro: il tentativo di abuso, motivavano i magistrati, “non può neppure del tutto escludersi”, ma “le modalità della caduta” non sarebbero state coerenti con l’ipotesi della fuga. La procura generale di Firenze impugna le motivazioni e lo scorso 21 gennaio la Cassazione annulla l’assoluzione degli imputati e ordina un nuovo processo d’Appello: “La sentenza impugnata non è capace di resistere – si legge nelle motivazioni – considerata sia l’incompletezza, sia la manifesta illogicità, sia la contraddittorietà della motivazione redatta dal Collegio in appello”. L’accusa aveva chiesto tre anni di reclusione e la stessa richiesta era stata avanzata dai legali dei genitori di Martina, parti civili. Il verdetto era stato impugnato e quindi la Cassazione aveva detto l’ultima parola.
“La semilibertà concessa agli assassini di nostra figlia sembra un mezzo premio, peraltro non meritato. Non si sono mai pentiti, non hanno mai chiesto scusa, non si sono mai ravveduti”, hanno detto i genitori della ragazza, Bruno Rossi e Franca Murialdo, parlando con l’Adnkronos.
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