Un anno da dimenticare, pieno di tragici record negativi. Il 2023 in Medio Oriente e nell’Africa del Nord è andato così.

Il sesto conflitto tra Israele e Hamas è stato dominato da una serie infinita di crimini di guerra da una parte e dall’altra, con uno spaventoso tributo di vite civili nella Striscia di Gaza e livelli inenarrabili di umiliazione, devastazione, distruzione e crisi umanitaria. Il tutto accompagnato da una narrazione di parte, da condanne e indignazioni selettive, dal ritorno dell’antisemitismo e dalla deumanizzazione dei palestinesi, meritevoli al più di aiuti umanitari ma mai di diritti.

Nonostante arrivino ormai da ogni parte del mondo, le richieste di cessate il fuoco vengono ignorate anche dal Consiglio di sicurezza: una minuscola ma influente manciata di stati continua a sostenere le operazioni militari israeliane.

All’ombra della guerra a Gaza, la violenza dell’esercito e dei coloni d’Israele nella Cisgiordania occupata ha a sua volta conosciuto livelli senza precedenti: per numero di palestinesi uccisi, circa 300, il 2023 supererà il 2022 che già era stato l’anno peggiore dal 2005.

L’unica buona notizia da quelle zone è stata quella del ritorno in Italia di Khaled El Qaisi, lo studente italo-palestinese arrestato il 31 agosto al valico di Allenby e trattenuto in una prigione israeliana fino al 7 ottobre per motivi mai resi noti.

In Iran è proseguita la repressione del movimento Donna Vita Libertà: processi, condanne, torture e stupri nelle carceri, impiccagioni di persone che avevano preso parte alle proteste pacifiche. Alla fine dell’anno, le esecuzioni di condanne a morte avranno superato le 800: ben oltre due al giorno, una delle ultime contro un’ex sposa bambina.

Armita Garavand, “colpevole” come Mahsa Amini di aver violato le leggi sull’obbligatorietà del velo, è morta in circostanze che fanno supporre la partecipazione attiva di funzionari dello stato. Nel braccio della morte della prigione di Evin resta, vero e proprio ostaggio costantemente minacciato di esecuzione, lo scienziato iraniano con passaporto svedese Ahmadreza Djajali.

Le monarchie del Golfo sono state ancora una volta premiate, nonostante la pessima situazione dei diritti umani.

Nel 2023 l’Arabia Saudita ha “acchiappato” tutto: ha acquistato giocatori e allenatori, come fosse una collezionista di figurine, per dare prestigio al campionato di calcio che ora ha anche una vetrina in una tv italiana; si è presa l’organizzazione di Expo 2030 e dei mondiali di calcio del 2034.

Per il secondo anno, le esecuzioni capitali hanno superato quota 100 arrivando, considerando gli ultimi due anni, ad almeno tre centinaia. Sono proseguite le condanne a decenni di carcere per chi ha osato esprimere blande critiche sui social media.

Anche quest’anno, com’era stato nel 2022 in Egitto e come sarà nel 2024 in Azerbaigian, la conferenza delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico si è svolta in uno stato violatore dei diritti umani, gli Emirati Arabi Uniti, e per di più è stata presieduta dal capo dell’azienda petrolifera nazionale, alla presenza di un numero di lobbisti del petrolio senza precedenti: durante la Cop28 non è stato praticamente possibile protestare ed è stato persino avviato un maxiprocesso nei confronti di dissidenti e difensori dei diritti umani alcuni dei quali già in carcere.

Pure in Nordafrica, l’altra regione di cui mi occupo da oltre dieci anni su questo blog, non c’è stato nulla di buono.

Se non fosse stato per alcune importanti scarcerazioni in Egitto (quelle di Patrick Zaki, di Ahmed Douma e di Mohamed el-Baqer), del 2023 non ricorderemmo altro di positivo. In Tunisia è proseguita la svolta autoritaria avviata nell’estate del 2021 dal presidente Kais Saied, con indagini, processi e condanne nei confronti di chiunque abbia provato a criticarlo; in Libia una spaventosa alluvione ha ricordato cosa vuol dire governare pezzi di territorio senza prendersene minimamente cura, preferendo proseguire il conflitto armato iniziato subito dopo l’eliminazione di Muhammad Gheddafi.

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