di Riccardo Bellardini

Quello di Giulia Cecchettin è l’83esimo femminicidio dall’inizio dell’anno, come illustratoci dal report del Viminale. Si va verso il pareggio del dato dello scorso anno, quando ci si fermò a quota 88. Perché Giulia è stata uccisa da quel codardo che s’è messo in fuga ed è stato alla fine fermato in Germania? Quale sarà il movente che avrà spinto l’ennesimo “bravo ragazzo” della situazione, ad eliminarla con una tale barbara violenza? E’ semplicissimo: Giulia era una donna.

Non è facile essere donne in Italia. Non è facile esserlo nelle altre nazioni del mondo occidentale che supponiamo essere “libero”, “evoluto”, “moderno”. La parità fra i sessi? Purtroppo ancora non c’è. Ci sono stati dei cambiamenti, dei segnali incoraggianti. Ma permane uno squilibrio, un’asimmetria di fondo che relega la donna al ruolo di subalterna. Il famoso soffitto di cristallo, nonostante qualche crepa, pare inscalfibile. Va oltre le possibilità scarse di ascesa ai vertici delle organizzazioni per il genere femminile, si espande e ingloba anche le differenze, ancora vistose, nelle retribuzioni, che rimangono in parecchi contesti lavorativi, più alte per gli uomini.

Nel nostro paese, da un anno, per la prima volta abbiamo una donna a capo del governo. Ma quest’ultima pare insensibile all’argomento, travolta dalle idee retrograde della destra di cui si fa portavoce, e tra l’altro alleata di un partito che ebbe in Berlusconi il suo faro. San Silvio da Arcore, ha promosso senza sosta, negli anni del suo dominio incontrastato tra politica e televisioni, l’immagine della donna-oggetto, corpo malleabile, docile, piegabile con facilità ai desideri maschili.

Ed ecco che ci ritroviamo di fronte ad uomini poveri di mente e spirito, accecati dall’ira, che al loro fianco non hanno più una partner, ma una merce, un qualcosa di cui sono indiscutibilmente proprietari. Quando questa merce inizia a parlare, a ribellarsi, questi eroi dei nostri tempi vanno in confusione, non sentono più ragioni, diventano violenti, e poi magari si giustificano adducendo come scusa, dopo aver ammazzato una povera ragazza, la follia. Non c’è però nessuna follia. I femminicidi sono delitti ragionati, generati da una lucida rabbia, che si alimenta grazie all’idea di superiorità, di comando, di possesso che un uomo crede di avere, senza alcun dubbio, su una donna.

Giulia è vittima dell’ennesimo assassino che si è sentito onnipotente fregiandosi della sua forza, una forza bruta, concessa dalla natura al maschio dominatore, a fronte della fragile carne femminile. Il retaggio dell’angelo del focolare ancora ci invade, ancora ci permea. La donna li, in casa, sola. A pensare ai figli, a preparare la cena, magari presa a male parole, insultata, o nei casi più gravi aggredita come nulla fosse da colui che dice di amarla.

Quante compagne, quante mogli, sono oggi in questa condizione, pietrificate da una paura che non permette loro di denunciare? Quante di queste situazioni di tortura psicologica si trasformeranno in nuovi orribili femminicidi? E’ necessaria un’autocritica maschile. Il cambiamento deve partire da noi, noi uomini. Ragioniamo a fondo su cosa significa amare una donna. Su cosa significa rispettarla. Rispettare la sua libertà.

Proviamo a considerare le donne nella loro bellezza totale, non in quella dell’immagine puramente fisica, del corpo sessualizzato. La bellezza di una donna, sta pure nella libertà di scegliere. Essere rifiutati, non equivale a morire, ad essere sconfitti. E’ una delle varie possibilità del reale.

Abbiamo quindi due strade: da una parte accettare la realtà, da esseri dotati d’intelletto quali siamo. Provare rabbia, ma riflettere per elaborarla, senza esplodere in gesti inconsulti. Dall’altra non accettarla, e scegliere lucidamente di annientare una vita in nome di una forza e di una superiorità che sarebbero iscritte in maniera incancellabile nella natura. Sta a noi. Siamo davvero disposti a cambiare?

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