L’Inps ha recentemente pubblicato uno studio da cui emerge che, grazie allo sgravio contributivo a favore dei datori di lavoro che assumono donne non occupate, il tasso di occupazione femminile registra una crescita. Accanto a questa notizia positiva se ne deve registrare un’altra di segno opposto, visto che i salari netti delle lavoratrici non sono cresciuti, neppure in modo tale da tenerle indenni dalla crescita dell’inflazione.

Insomma, grazie alla decontribuzione si è stimolata la domanda di lavoro femminile (riducendo il divario occupazionale di genere), ma non si è attenuato il gender gap dal punto di vista retributivo. Quest’ultimo dato sembra confermato con riguardo al 2020 dal rapporto BES 2021 dell’Istat, visto che l’incidenza dei lavoratori con bassa paga (cioè con retribuzione oraria inferiore a dueterzi di quella mediana) è maggiormente concentrata in percentuale tra le donne (13,8%) rispetto agli uomini (10,7%).

Ho pensato che per parlare di questo argomento fosse necessario che io chiedessi aiuto alla mia collega Elisa Geraci, in quanto esperta e anche in quanto donna, e quindi più credibile di me (uomo di mezza età) a scrivere di gender gap. Le idee sono, quindi, sue: io mi limito a fare da “cassa di risonanza”.

Una prima novità per il 2022: la rendicontazione obbligatoria e il sistema premiale per le aziende

Fortunatamente sembra che la sensibilità verso l’inclusione stia crescendo, come è dimostrato dal fatto che il Legislatore è intervenuto (con la Legge 162/2021) a rendere obbligatoria per tutte le aziende, pubbliche e private, con più di 50 dipendenti la rendicontazione sulla situazione di impiego maschile e femminile. Oggi, quindi, nell’ambito delle azioni positive, necessarie ad eliminare (o almeno ad attenuare) la discriminazione, viene introdotta una rendicontazione delle politiche di genere.

Lo scorso 25 marzo 2022 sono poi state pubblicate le linee guida UNI che introducono (sulla base del nuovo art. 46 bis del Codice delle Pari Opportunità) specifici indicatori chiave di prestazione (KPI), che consentono di accedere a sgravi fiscali (fino a un massimo di 50mila euro) e punti di preferenza nella partecipazione a bandi pubblici italiani ed europei.

Perché è necessario intervenire urgentemente

Un recente studio condotto da una delle quattro grandi multinazionali della consulenza registra che il lavoro femminile, in particolare negli ultimi due anni, è sinonimo di:

1. crescenti livelli di stress e preoccupanti tassi di burnout (il 53% nel 2020);

2. mancanza di flessibilità nell’organizzazione del lavoro;

3. abusi e micro-prevaricazioni (aumentate al 59% nel 2020 rispetto al 53% del 2019);

4. un ossessivo continuo pianificare le proprie dimissioni a breve.

Insomma, il panorama appare fosco: è quindi urgente intervenire.

La difficoltà culturale dell’inclusione ha radici profonde

Il problema è che l’inclusione è un tema culturale e per affrontarlo seriamente si deve partire dalle fondamenta. Purtroppo, il sistema d’istruzione italiano manca per primo di inclusione su base estensiva, poiché non allena i docenti a progettare i percorsi educativi su base inclusiva (rare le eccezioni di “progetti pilota”). Utile ricordare che Mohamed Abdalla Tailmoun ha documentato, parlando di segregazione scolastica, che all’uscita dal sistema scolastico i figli di immigrati approdano a lavori esecutivi e solo a una piccola parte di loro a lavori direttivi, se non si disperdono prima durante il percorso scolastico.

Affrontare i temi della segregazione lavorativa senza ricordare quelli della segregazione scolastica può essere fuorviante. Citando il Premio Nobel per l’Economia Amartya Sen, “diversità ha radice nel volgere in altra direzione per trasformare la realtà e creare cose né uguali, né simili, a ciò di cui abbiamo esperienza: la diversità ci porta, quindi, ad abbandonare il comfort del porto sicuro per navigare in mare aperto verso mete ignote. In questo senso, porta intrinsecamente dentro di sé il senso di insicurezza (nell’etimo, senza-cura), quasi dicotomico con la popolare idea di inclusione: non sorprende, dunque, come nel dibattito il valore della diversità rimbalzi dalla sicurezza all’inclusione, pur essendo altro rispetto ad entrambe”.

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