di Susanna Stacchini

Raccontare mezze verità, travisarne o tacerne altre, focalizzare l’attenzione su notizie marginali, a discapito di altre fondamentali. Giudicare un’azione politica, non nel merito, ma in funzione del potente di turno. Non dare del ladro a chi ruba, se ha il colletto bianco. Gli altri invece al rogo.

Chiedere a gran voce l’ennesima riforma della giustizia, perché la precedente non è abbastanza indecente. Definire l’uso delle intercettazioni e del trojan, sistemi da regime totalitario, invece di dire quanto possono essere preziosi, nella fase inquirente. Sostenere che la prescrizione è il giusto strumento per ridurre i tempi del processo e non lo strumento che consente a imputati illustri, di farla franca. Fingere di non sapere quali sono i motivi per cui la sanità pubblica è al collasso, solo perché è imprudente parlare di sprechi e corruzione. Attivarsi prontamente dopo ogni terremoto o alluvione, con il mantra di sempre che recita: “ora non è il momento delle polemiche”. “Ora dobbiamo piangere i morti, empatizzare con feriti, sfollati e con chi ha perso tutto”. Come se prima di quell’emergenza, si fossero sbracciati nel denunciare le politiche di dissesto idrogeologico, abusi edilizi e una pressoché totale mancanza di messa in sicurezza di centri storici e più in generale dei centri urbani.

Affrontare il tema dell’immigrazione, evitando scrupolosamente di andare alla radice del problema. Non è politicamente corretto parlare delle responsabilità dell’occidente. Va bene sfruttare loro e le loro terre, va bene fargli guerra, va bene ridurli in condizioni di schiavitù, costringendoli a vivere e morire di stenti, basta che lì restino. Ma quando sbarcano sulle nostre coste, o cercano di farlo, non potendo dire le cose come stanno, inizia la saga delle domande o affermazioni retoriche, con illustri giornalisti che si interrogano sul perché e come fare a contrastare il fenomeno, come se ciò fosse possibile. Morire per morire, loro ci provano.

Non riuscire a dire chiaramente che la guerra è un orrore, chiunque la faccia. Ridursi a una “non analisi”, ripetendo in modo ossessivo che c’è un aggressore e un aggredito. Disconoscere la storia per poter fingere di non capire. Usare i giornali per additare e schernire chi parla di pace. Censurare chi esprime un no “troppo deciso” al riarmo e all’invio indiscriminato di armi. Mettere sulla graticola chiunque osi parlare di diplomazia, perché “non si deve dialogare con l’aggressore”. E allora con chi?

E’ in uno scenario così squallido che mi è tornato in mente l’editoriale che Sallusti scrisse su Libero il 20 aprile, riferendosi al governatore del Friuli Venezia Giulia Fedriga. Se in quell’occasione rimasi schifata, oggi, se pur per paradosso, devo rivalutarlo. Nessuna ipocrisia, bensì una laconica chiosa. “La prossima volta che lei avrà bisogno di una marchetta o una difesa d’ufficio dagli attacchi di Repubblica e de La Stampa, la prego: non alzi il telefono con noi, come d’abitudine”. Così, senza alcun pudore, mise nero su bianco, ciò che per altri resta un tabù inconfessabile. Ecco, questo è ciò che resta di gran parte dell’informazione italiana. Un bene prezioso per la collettività, usato come merce di scambio, per compiacere la politica dei potenti.

E come definire tutto ciò, se non infimo? Un oltraggio a quei giornalisti che, per un’informazione libera, hanno sacrificato la loro vita e a tutti quelli che ancora oggi, rischiano o sacrificano la propria, per fare dell’informazione un servizio pubblico e uno strumento di democrazia. Una democrazia davvero matura, non teme la libera informazione, semmai la promuove. La libertà di pensiero, è il nettare della democrazia e tentare di limitarlo o anche solo condizionarlo, può costituire l’humus perfetto, per derive autoritarie. Da qui, il nobile ruolo del giornalismo con la A maiuscola. Rafforzare la democrazia promuovendo la capacità critica. Un popolo più consapevole, è un popolo più libero.

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