Per uscire dall’impasse politica sul salario minimo occorre che i dettagli su come realizzarlo siano decisi non dalla politica ma da addetti ai lavori: potrebbe occuparsene il Cnel che già raccoglie parti sociali ed esperti. Poi conviene iniziare a sperimentarlo in singoli settori, quelli in cui i lavoratori sono particolarmente fragili e la contrattazione ha poca presa, e valutarne gli effetti. Come ha fatto la Germania a partire dal 1997, prima di estenderlo a tutti. È la strada da seguire secondo Andrea Garnero, economista dell’Ocse che nel 2021 ha coordinato il gruppo di lavoro sul contrasto alla povertà lavorativa voluto dall’ex ministro Andrea Orlando. Secondo cui già prima della pandemia un quarto dei lavoratori dipendenti italiani ricadeva nella platea di quelli a bassa retribuzione. “È interesse di tutti far procedere il dibattito evitando di arenarsi su questioni teoriche che sono impossibili da verificare ex ante”, spiega Garnero mentre maggioranza e opposizioni si apprestano a discuterne in Aula alla Camera con il rischio che tutto sia rinviato a settembre.

Da quali settori partire? Logistica, ristorazione, vigilanza privata? “La mia è una proposta di metodo, che vale sia per la cifra a cui fissare la soglia minima sia per la scelta dei settori. Bisogna discuterne. Come criterio adotterei non tanto il livello dei salari quanto il mancato rispetto dei minimi contrattuali già in vigore: tra quello che prevedono sulla carta i ccnl e la loro concreta applicazione, infatti, c’è spesso un enorme divario. Per questo non è vero che il 97% dei lavoratori sia già coperto da un contratto firmato da Cgil, Cisl e Uil“. I dati Cnel-Inps dicono questo, ma “non si possono prendere per buoni: il fatto che l’impresa dichiari all’Inps di aver adottato uno dei contratti ritenuti più rappresentativi, con relativi minimi contributivi, non implica che si tratti di quello comunicato al dipendente e al ministero del Lavoro”, spiega Garnero. Che da anni sostiene anche la necessità di estendere formalmente l’efficacia dei contratti collettivi di riferimento all’intero settore, pur con un grado di flessibilità che consenta una differenziazione territoriale e in base alla grandezza dell’azienda.

Tornando all’importo del salario minimo, per l’esperto va deciso a valle di un’analisi approfondita. I 9 euro lordi (senza tredicesima, Tfr e scatti) previsti dalla proposta unitaria delle opposizioni “sono una scelta politica che ora viene giustificata in modi più o meno realistici”. Ma che impone per esempio di escludere i lavoratori domestici dalla platea coperta da quel minimo: per loro il ministero del Lavoro viene incaricato di fissare un’altra cifra, evidentemente più bassa. In più, nota l’economista, “non credo che per i lavoratori sia molto chiaro che cosa è compreso nei 9 euro e cosa no. Invece il salario minimo deve essere più semplice possibile”. Una cifra base che tutti sappiano di aver diritto a ricevere quando accettano un lavoro. Per questo differenziarlo per aree geografiche sarebbe controproducente, nonostante le disparità Nord-Sud siano di ampiezza “unica nei Paesi Ue”, sottolinea Garnero. Il livello, allora, andrebbe “tarato sul Sud“. Partendo dal presupposto che il minimo legale non sarà la panacea contro il lavoro povero – chi ha un part time involontario o lavora pochi mesi all’anno trarrà un beneficio relativo – e non risolverà il problema di salari medi talmente bassi, in alcuni settori, da non consentire di affrontare i costi della vita in una grande città.

Altra questione da affrontare è se ha senso introdurre un incentivo pubblico che accompagni le imprese nella fase di introduzione del salario minimo, come previsto dalla proposta a prima firma Conte che rimanda alla prossima legge di Bilancio la definizione di un beneficio “proporzionale agli incrementi retributivi corrisposti”. Il punto è che questo sposta una parte degli oneri dal bilancio delle imprese a quello dello Stato. “In Francia la contribuzione sui salari fino a 2,2 volte il minimo è molto ridotta. Ma quell’aiuto costa decine di miliardi l’anno“, avverte l’economista, “e rischia di intrappolare i lavoratori in quell’inquadramento perché qualsiasi aumento farebbe esplodere i costi per il datore”.

Garnero risponde poi ai timori secondo cui un minimo legale porterà alla fuga di massa dai contratti collettivi (improbabile, soprattutto “in un contesto in cui anche solo per ragioni demografiche mancano lavoratori”) e a quelli sull’effetto domino che gonfierebbe anche i salari dei livelli di inquadramento più elevati rendendo il costo del lavoro insostenibile per le imprese. “L’effetto spillover c’è ma dipende dal livello di partenza e da quanti sono i lavoratori coinvolti”, spiega. “Nell’ultimo Employment Outlook dell’Ocse abbiamo fatto una simulazione su cosa succede in Usa, Francia, Germania e Regno Unito quando il salario minimo viene aumentato: l’effetto sulla massa salariale aggregata è limitato”. Ci sono però “aspetti sociali”, continua, “che vanno considerati: chi vede via via ridursi la distanza tra il proprio stipendio e il salario minimo, come accaduto in Francia agli insegnanti, può percepirlo come una diminutio, una riduzione del valore del proprio lavoro. E qualcosa di simile potrebbe avvenire nelle aziende”. Elementi di cui tener conto per passare dalle parole ai fatti “con giudizio”.

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