Fine anni 70, un rapinatore solitario a Gatteo (FC) compie una rapina in banca e riesce a dileguarsi. Il mio collega e caro amico Antonio Mosca (deceduto a causa dei colpi da arma da fuoco esplosi dalla banda della “Uno bianca”), in servizio al Commissariato PS di Rimini, mi telefona informandomi che il rapinatore avrebbe trovato rifugio a Cesenatico in un appartamento di un noto pregiudicato di Forlì. Io ero in servizio alla Squadra Mobile forlivese e quindi titolato a svolgere le indagini.

Riusciamo a localizzare l’appartamento e rintracciamo i due personaggi. Il rapinatore nascondeva addosso, dentro un calzino parte consistente del denaro rapinato. Ma le necessarie perquisizioni diedero esito negativo: non rinvenimmo nemmeno la pistola. Poiché il rapinatore era residente in provincia di Ferrara, ci recammo nelle sua abitazione ed effettuammo la perquisizione, che diede esito negativo. In casa c’era l’anziana madre e la figlia. Dissi agli agenti di rimettere in ordine il conseguente disordine causato. Io cercai di tranquillizzare le due donne, trattandole con tanta umanità. Rientrammo in ufficio e, alla presenza dei legali, interrogai i due arrestati. E poi furono condotti in carcere.

Trascorse del tempo e ricevetti una telefonata dal comandante del carcere: “Giordano, c’è il detenuto che hai arrestato per rapina, che vuole parlarti con urgenza”. Mi precipito in carcere: “Mi hanno proposto di partecipare all’evasione dal carcere; in tutto siamo dieci, ma io mi sono rifiutato. L’evasione, avverrà mediante l’utilizzo di nove candelotti di dinamite, che serviranno per creare una breccia nel muro di cinta. Una volta fuori, si nasconderanno in una villetta di proprietà di una donna, in rapporti con uno degli evasi, che è di Forlì. Poi quando le ricerche si saranno affievoliti, lasceranno la città”. Gli chiedo: “Mi può fornire i nomi?”. E mi rende noto i nomi dei detenuti che dovrebbero evadere, tra i quali due appartenenti alla camorra.

Mi scusi, ma perché lo sta raccontando a me e non magistrato o al comandante del carcere? “Mia mamma e mia sorella mi hanno riferito che lei è stato gentilissimo e umano, ed ora voglio ricambiare: di lei mi fido, perché quando mi ha arrestato mi ha trattato con tanta umanità. Immediatamente informiamo il Procuratore della Repubblica, che nottetempo trasferisce in altri penitenziari i detenuti coinvolti. Pertanto, c’era la necessità di identificare la donna incensurata al fine di sequestrare i nove candelotti di dinamite. Le indagini, durate alcuni mesi, non consentirono l’identificazione della donna.

In una qualsiasi mattinata, mentre ero in ufficio arriva una donna che voleva denunciare il furto della sua bicicletta e mentre stavo preparando il verbale, dice: “Prima di venire qua sono andata da un’amica per dirle di interessare un suo amico pregiudicato per farmela ritrovare. Ma mi ha detto che è in galera e per giunta l’hanno mandato via dal carcere di Forlì”. Mi si accende la lampadina: “Signora ma dove abita la sua amica e se sa come si chiama l’amico?”. La signora candidamente mi dice i nomi dei due e dove abita la donna. Bingo. Immediata perquisizione domiciliare: rinveniamo e sequestriamo i nove candelotti. Stavolta, la fortuna stava dalla mia parte. Nel caso di specie, la mia “attenzione” verso due donne impaurite e indifese, consentì a noi della polizia di evitare un’eclatante evasione, sia per i numero di partecipanti, che per l’azione violenta.

Mi permetto di far notare a chi legge, che non c’è affatto bisogno che un poliziotto agisca con arroganza, supponenza, anche nei confronti di incalliti delinquenti. Ovviamente, occorre valutare caso per caso, e, quindi, la risposta dovrà essere adeguata al comportamento di chi si ha davanti.

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