“Per favore, mi potrebbe far salutare mio figlio?” “Certo signora! – risposi io – anzi, se vuole vada a casa e gli prepari una borsa con il necessario per la detenzione, prima che lo portiamo al Malaspina (il carcere per i minorenni di Palermo, nda)”. La mamma stupita, dice: “Davvero lei mi aspetterebbe?” “Sì signora, l’aspetto! Non si preoccupi, non condurrò al Malaspina il ragazzo prima del suo ritorno”.

La mamma del giovane ritorna dopo qualche ora con la borsa contenente spazzolino, dentifricio e indumenti vari; saluta abbracciando il figliolo. Il minorenne, arrestato in flagranza dalla pattuglia da me comandata per rapina a mano armata, viene condotto in carcere.

Negli anni Ottanta a Palermo, oltre la mattanza con centinaia e centinaia di morti, voluta dal Curtu di Corleone – Salvatore Riina – la criminalità s’era scatenata con rapine in banche e negozi; in un sabato a Palermo furono compiute 35 rapine. In quel periodo ero in forza alla Sezione rapine della Squadra mobile, mentre poi transitai in quella Investigativa diretta da Ninni Cassarà e, quindi, niente più rapine ma indagini nei confronti di Cosa nostra. Dopo tempo dall’arresto del minorenne, squilla il telefono del mio ufficio. Era la mamma di quel ragazzo che mi dice: “Signor Giordano, lei mi trattò con gentilezza e umanità, ora voglio ricambiare; sabato verso le ore…. vada in via… arriverà un’auto di colore… guidata dal latitante mafioso (fece il nome)”. Grazie, signora!

Nel giorno e nell’ora indicati, coi due ragazzi della mia pattuglia ci recammo sul posto e attendemmo una mezz’oretta; ci dividemmo confondendoci tra le tante persone presenti. A un certo punto, proprio nell’ora indicata dalla signora, vidi giungere l’auto della quale avevamo il numero di targa, che si fermò davanti a un negozio. Riconobbi il killer latitante. Egli era appena sceso dall’auto e gli andai incontro come se fossi un passante qualsiasi, con le mani in tasca. Quando fui accanto a lui, senza estrarre la pistola da sotto la camicia – non mi sono mai piaciute le pupiate – gli dissi chiamandolo per nome: “Buongiorno signor…!” Lui mi guarda e dice: “Ci conosciamo?”. “No, ma stamattina le vorrei offrire un caffè alla Squadra mobile”. Nel frattempo, s’erano avvicinati i due agenti che erano con me. Il latitante rimase perplesso, non si aspettava un arresto in quel modo; senza sparatorie e senza urla del tipo “Polizia, è in arresto”. Nessuno degli astanti dell’affollata via si accorse dell’operazione da noi compiuta e nemmeno i gestori del negozio. E quando rientrammo alla Mobile con l’arrestato, il mio ex dirigente dell’antirapina mi dice: “Pippo, la signora aveva ragione!” Prego? “Sì, abbiamo il telefono sotto controllo e abbiamo sentito la confidenza che ti ha fatto”.

Ebbene oggi, nel 2023 dopo quasi 40 anni da quell’arresto, il killer è tuttora detenuto al 41 bis. Ho voluto raccontare questo episodio per dire che i gesti di umana comprensione verso persone che si trovino in uno stato di disagio – riferito alla mamma ovviamente – sono necessari. Del resto dovrebbe essere la norma in tutti i rapporti umani, ma in particolare da parte di chi indossa una divisa. L’empatia dovrebbe essere la pietra miliare del comportamento di ogni appartenente alle Forze dell’Ordine; linfa vitale che alimenti il buon comportamento di ogni poliziotto. Non si può e non si deve umiliare chi in quel momento è privato della libertà personale e qui il riferimento è generale.

In un prossimo post descriverò un analogo episodio, scaturito da un mio comportamento umano verso due donne – mamma e figlia – e che mi permise di stroncare un progetto di evasione da un carcere di ben 9 detenuti: sequestrai la dinamite che doveva essere usata per abbattere il muro di cinta del carcere. Di sicuro evitai la morte dell’agente della polizia penitenziaria in servizio sul muro.

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