di Savino Balzano

Ieri l’editoriale de La Repubblica titolava: “Il salario minimo non piace ai sovranisti”, a firma del direttore della testata, Maurizio Molinari. Devo confessarvi, a cuore aperto proprio, la mia stanchezza: credo davvero che discussioni di questo tipo, di tale rilevanza per i destini di così tante persone, non possano essere condotte con argomenti simili. Mi domando se nel nostro Paese sia possibile avanzare dei dubbi sulla gestione della crisi sanitaria senza che qualcuno ti dia del terrapiattista o del complottista; se sia possibile criticare la posizione dell’Italia sul conflitto in Ucraina senza che ti diano del putiniano e così via. Possibile che la discussione politica nel Paese sia irrimediabilmente ridotta a uno sguaiato tifo da stadio?

Peraltro, se proprio dobbiamo entrare nel merito della questione, e farlo ora ci impone ovviamente di essere schematici, c’è proprio un errore di fondo nell’impostazione del direttore de La Repubblica: provo ad argomentarlo. E non lo farò, evidentemente, bollando la sua di posizione con qualche epiteto che l’attuale clima respirato non renderebbe difficile rinvenire.

Davvero sintetizzando all’osso: quello del lavoro è un mercato e, per quanto animato da valori assai più romantici, funziona esattamente come quello del latte. Il costo del lavoro, le nostre retribuzioni, sono il frutto dell’equilibrio sistemico tra domanda e offerta di lavoro. Più è consistente il potere contrattuale dell’offerta (i lavoratori), più alte saranno le retribuzioni. Se nel mercato c’è poco latte, ad esempio, i suoi produttori avranno un potere contrattuale elevatissimo e godranno del privilegio di “fare il prezzo”. La stessa identica cosa vale per il mondo del lavoro e lo sapevano benissimo i nostri Padri costituenti.

Le retribuzioni sono andate a picco negli ultimi trent’anni dal momento che il potere contrattuale dei lavoratori è crollato: perché? Rispondere a questa domanda è essenziale, ovviamente, in quanto se individui la causa puoi provare a scovare una soluzione.

Ancora sinteticamente, le cause sono a mio avviso due: una strutturale e l’altra sovrastrutturale.
Quella strutturale è di natura economica: l’abbandono di politiche economiche espansive, anti regressive, indirizzate alla piena occupazione (la nostra Costituzione le impone) ha comportato nel tempo una impennata della disoccupazione e dunque un eccesso di offerta di lavoro: che succede quando nel mercato c’è troppo latte?

Perdendo potere d’acquisto, i lavoratori non sono più riusciti a resistere a tutta una serie di riforme drammatiche, con particolare riferimento a quelle che hanno messo in piedi la seconda causa del crollo dei salari: la precarietà. Precarizzando la posizione delle donne e degli uomini sul lavoro, infatti e ancora rapidamente, li si è esposti alla ricattabilità, alla ritorsione, all’impossibilità di contrastare e rivendicare. La precarizzazione, alimentando un circolo vizioso di debolezza della comunità del lavoro, ha costituito un processo attraverso il quale si è disinnescata la partecipazione democratica, sia nel “piccolo” Stato, l’impresa, che nel “grande Stato”, il Paese (per citare e ricordare il compianto maestro, Umberto Romagnoli). Ciò ha prodotto effetti, per inciso, non solo sul mondo del lavoro, ma financo sugli assetti democratici dell’Italia, questo è un altro discorso.

Ora, per concludere, la domanda che io mi sento di porre è questa: sono stati i cosiddetti sovranisti ad abbracciare l’agenda neoliberale di emanazione europea? Non sono ad esempio stati loro a firmare la famosa lettera della Bce del 2011, con la quale si chiedevano tutte le riforme che poi sono state realizzate negli anni successivi: a firmarla furono Trichet e Draghi. Ancora: non sono stati governi sovranisti (peraltro quello attuale di sovranista ha solo l’etichetta che certa stampa gli affibbia, purtroppo) a realizzare la precarizzazione: il governo giallo-verde ha emanato il Decreto dignità, mentre Monti e Fornero hanno sparato a zero sull’articolo 18 e il Pd ha scritto il Jobs act, una riforma tanto precarizzante che il Decreto lavoro di Meloni è una barzelletta al confronto.

Tutto questo per dire che risolvere il problema dei salari italiani è questione molto molto più complessa di un tifo da derby e che, al netto di come la si voglia pensare sul salario minimo legale (io resto piuttosto scettico sull’utilità della misura), le responsabilità circa l’attuale grado di prostrazione del lavoro nel Paese sono molte e diffuse, non abbastanza tuttavia da essere ricondotte per la maggior parte alla sfera dei sovranisti (veri o presunti che siano).

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