di Claudia De Martino

Il 19 maggio scorso si è tenuto a Jeddah un vertice della Lega Araba che ha visto, per la prima volta dal 2011, la rinnovata partecipazione del Presidente siriano Bashar al-Assad, riabilitato come legittimo rappresentante del suo Paese nonostante la sua primaria responsabilità nella guerra civile che perdura da oltre 12 anni e che ad oggi ha provocato 306mila morti (500mila secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani), 6.7 milioni di rifugiati e 13 milioni di sfollati.

La presunta vittoria di Bashar al-Assad non è ancora completa – la provincia di Idlib, occupata dalla branca siriana di al-Qaeda, sfugge ancora al regime – e si arresta militarmente al controllo diretto del 70% del territorio, ma i vicini regimi arabi ritengono con sano realismo che il Presidente siriano – confermato per il quarto mandato con il 95,2 dei suffragi nel maggio 2021 – non rischi più di essere spodestato dall’opposizione, sia destinato a rimanere saldamente al potere e debba dunque essere reintegrato nella Lega araba.

Riyad ritiene infatti sia venuto il momento della normalizzazione con la Siria come segno distensivo a livello regionale. Un certo numero di considerazioni pragmatiche sulla stabilità regionale hanno fatto protendere Riyad per tale scelta: la Siria risulta già molto isolata sullo scacchiere internazionale ed è suscettibile di avvicinarsi ulteriormente agli unici due Paesi con i quali mantiene buoni rapporti: la Russia, dal 2015 suo principale alleato nella guerra, a cui ha concesso in leasing per 49 anni (per tramite della società Stroïtransgaz) il porto commerciale di Tartous come base navale, e l’Iran, che le ha fornito armi e milizie per difendersi, con cui ha siglato recentemente un accordo bilaterale per la ricostruzione del Paese.

In aggiunta, la Siria è considerata dagli Stati vicini una potenziale minaccia, essendosi trasformata in un narco-stato che contrabbanda droga, in particolare il captagon – una potente anfetamina – sul mercato internazionale, esportandola soprattutto in Giordania e nei Paesi del Golfo grazie ai confini porosi e desertici che dividono tali Stati.

Ancora, gli Stati arabi hanno interesse ad abbordare il delicato dossier del rientro dei rifugiati siriani, presenti in numeri ingenti nei campi profughi di Giordania e Libano: un ritorno sponsorizzato come “sicuro”. Infine, Mohammed Bin Salman ha optato per il ritorno della Siria di Assad nella Lega per cercare di controllare un esito considerato inevitabile nel lungo periodo, al contempo tentando di “strappare” la Siria ai concorrenti regionali (l’Iran) e internazionali (la Russia) attraverso la carta della “grande famiglia araba”: una famiglia in cui dominano crescentemente autocrati e militari, il cui principale successo politico è la prevenzione e/o la repressione delle Primavere arabe.

Il pretesto ufficiale è stato fornito dalla pressante necessità di un intervento umanitario a seguito dal terremoto del febbraio 2023 in Siria e Turchia, che ha provocato una forte crisi umanitaria nel nord della Siria che i Paesi del Golfo si propongono di tamponare fornendo aiuti materiali e finanziari ai rifugiati attraverso la cooperazione col regime, ma il momento prescelto potrebbe essere anche stato individuato dall’Arabia Saudita per inserirsi in tempo nella corsa internazionale alla ricostruzione della Siria, stimata circa 400 miliardi di dollari.

Agnes Levallois, ricercatrice della Fondation pour la recherche stratégique di Parigi, commenta che Mohammed Bin Salman intende imporsi come nuovo leader del panarabismo – un nuovo Gamal abd el-Nasser in versione islamica – ad ogni costo, e che a tal fine desideri infondere nuova vita alla Lega araba, un’istituzione moribonda che però riunisce i 22 Paesi arabo-musulmani, attraverso il varo di progetti concreti capaci di affrontare i principali problemi della regione, come il cambiamento climatico, le periodiche crisi di rifugiati e la sicurezza alimentare.

Il suo attivismo prenderebbe indifferentemente la forma di faraonici progetti di costruzione di città tecnologiche nel deserto -come Noam e The Line sul Mar Rosso – e di coraggiose iniziative diplomatiche sulla scena internazionale, come l’invito allo stesso summit della Lega Araba rivolto a due personalità distanti come il Presidente ucraino Zelensky e quello siriano al-Assad.

Poco importa che Assad non si sia mostrato minimamente collaborativo, anzi abbia incentrato il suo discorso sulla necessità di combattere le “ingerenze esterne” di Paesi terzi negli affari regionali (a rigorosa eccezione della Federazione russa), non abbia mostrato alcun pentimento nei confronti della repressione del suo popolo, né alcuna urgenza di ottenere prestiti e aiuti per quell’80% di popolazione siriana che vive attualmente sotto la soglia di povertà, né abbia ovviamente accennato alla sorte degli oltre 95.000 scomparsi arrestati dai suoi servizi di sicurezza e dei circa 80.000 prigionieri politici – soprattutto Fratelli Musulmani – ancora detenuti nelle sue prigioni.

Nel dicembre 2016, durante l’assedio di Aleppo, l’allora Segretario Onu Ban Ki-moon denunciò con sconcerto che la comunità internazionale “aveva collettivamente abbandonato il popolo siriano” mentre l’ambasciatrice francese all’Onu Atlani-Dualt si chiedeva se “Aleppo sarebbe diventata la tomba delle Nazioni Unite” (2016). A tutte queste solenni dichiarazioni delle autorità politiche non seguì alcuna reazione. La guerra in Ucraina nel cuore dell’Europa è servita a rimuovere nella coscienza euro-americana persino il ricordo dell’interminabile guerra siriana. Il regime è sopravvissuto militarmente grazie all’intervento aereo della Russia e alle truppe e ai rifornimenti dell’Iran e viene adesso riabilitato da quegli stessi Paesi arabi sunniti, loro ex acerrimi nemici, che si erano eretti a protettori dei cittadini, principalmente sunniti, uccisi in massa dal regime.

Se l’ultimo decennio di storia della Siria insegna qualcosa, è che qualsiasi regime che riesca a superare una crisi interna, anche molto cruenta, rimanendo al potere, non subirà alcuna conseguenza per i “crimini contro l’umanità” commessi, perché tale fattispecie si applica solo agli Stati che le guerre le perdono.

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