Otto miliardi: è il numero di esseri umani che abitano la terra. Il numero più alto nella storia, mentre il tasso globale di crescita della popolazione è in continua discesa, mai così basso dagli anni Cinquanta-Sessanta. Siamo in troppi o troppo pochi su questo pianeta? Nessuna delle due cose, risponde UNFPA, l’agenzia ONU per la popolazione, nel nuovo rapporto annuale sullo stato della popolazione nel mondo, che è stato presentato il 18 aprile a Roma a cura di AIDOS e UNFPA.

Non è di “bomba” o di “arresto” demografico che dovremmo parlare per governare le tendenze demografiche, ma di “resilienza demografica“, ovvero di come assicurare ai sistemi sociali ed economici la capacità di adattarsi, rimanendo in sintonia con ciò che le persone stesse dicono di volere. No alle narrazioni allarmistiche, dice UNFPA, che di fatto sostengono politiche di negazione dei diritti umani, in particolare a svantaggio di donne e migranti. No alle operazioni di “ingegneria demografica” che mirano a ridurre o ad aumentare il numero di figli per donna tramite azioni più o meno coercitive – operazioni che si sono dimostrate inefficaci o gravide di conseguenze fortemente discriminatorie (come ad esempio sterilizzazione forzata e aborti selettivi). Sì, invece, ad un approccio basato sulla raccolta ed analisi approfondita dei dati, per conoscere meglio le specificità territoriali, sulla riduzione delle disuguaglianze di genere, su politiche di redistribuzione del lavoro di cura, sull’integrazione delle persone migranti, sul rinforzo della cosiddetta agency delle persone, ovvero la capacità di agire nel proprio contesto, delle donne in particolare.

I DISCORSI SULLA CATASTROFE – Come si forma e come si orienta l’opinione pubblica sulle tendenze demografiche, quale sia la ricaduta e l’efficacia delle politiche demografiche è il filo di questo Rapporto annuale del Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione. Che dei discorsi catastrofici analizza tutte le criticità. Il tema del discorso pubblico è importante perché credenze diffuse nell’opinione pubblica possono favorire politiche che spesso ricadono sul corpo delle donne, anche dove non vi è coercizione, scrive il Rapporto.

Gli allarmi sul “siamo in troppi” generano un senso di impotenza e sono amplificati dall’ansia per la scarsità di risorse disponibili nel contesto dei cambiamenti climatici. Si tratta di una forma di “neo-malthusianesimo”, una retorica, è scritto nel Rapporto, non priva di danni poiché si abbatte proprio su chi ha meno risorse: il numero di figli per donna è più alto tra quei 5 miliardi e mezzo di persone che hanno un reddito così basso da non potersi permettere i livelli di consumo che generano il cambiamento climatico. Mentre una persona che vive negli Stati Uniti, per fare un esempio di paese a bassa fecondità, consuma in media 40 volte di più di una che vive in Africa.

Anche le paure sul “siamo in troppo pochi” generano mostri. L’etnonazionalismo è uno di questi, con la paura della “sostituzione etnica” agitata da partiti che ne hanno fatto il volano per vittorie elettorali (e solo nelle ultime ore il ministro dell’Agricoltura di Fdi Francesco Lollobrigida). In Europa ed altrove, è scritto nel Rapporto, movimenti spingono per fermare la cosiddetta “grande sostituzione” che verrebbe in conseguenza dei movimenti migratori, con campagne ed azioni di governo volte a spingere le donne (ma solo le autoctone) a fare figli per alzare il livello della popolazione.

DISUGUAGLIANZE GLOBALI – A livello globale il tasso di crescita della popolazione è ai minimi storici. Accade per una serie di fattori: declino della fertilità, innanzitutto, e declino dei livelli di mortalità con innalzamento dell’aspettativa di vita, che nel 2019 ha raggiunto i 72.8 anni. Ma la media globale nasconde grandi differenze tra Paesi (l’età media in Europa è di 42,5 anni, in Africa sub Sahariana è di 18,7).

Mai nella storia umana, infatti, ci sono state divergenze così ampie nei tassi di crescita della popolazione tra Paesi e regioni del mondo – è scritto nel Rapporto. Circa due terzi delle persone vivono in aree o paesi in cui il tasso totale di fecondità è pari o al di sotto il 2.1 figli per donna, il cosiddetto “tasso di fecondità zero” al di sotto del quale non c’è ricambio della popolazione. Il corrispettivo è che solo un terzo della popolazione mondiale vive in in Paesi dove il tasso totale di fecondità è sopra i 2.1 nascite per donna.

Sia che riguardino la mancanza o l’eccesso, dunque, le ansietà diffuse non sono del tutto scollegate dalla realtà. Il Rapporto fornisce dati e studi per mostrare che nella maggioranza dei Paesi a basso tasso di fecondità la condizione di “senza figli” (childlessness) è nella maggioranza dei casi non voluta (unintended). La maggioranza delle donne soggette ad inchieste, insomma, vorrebbe una famiglia più numerosa. D’altra parte, in molti contesti che presentano tassi di fecondità tra i più alti le donne dichiarano largamente di preferire famiglie più ridotte rispetto a quello che riescono ad ottenere. Si è stimato che circa la metà di tutte le gravidanze è non voluta e che circa un terzo di tutte le donne che vivono in Paesi a basso e medio reddito vanno incontro a gravidanze in età adolescenziale (UNFPA, 2022).

LA SOLUZIONE? È NEI DIRITTI – La storia ha ripetutamente dimostrato che né le restrizioni sulle libertà riproduttive né le campagne per spingere le donne ad avere più figli sono state efficaci nell’invertire il declino della fecondità o ad accrescerla. Viceversa, le soluzioni di maggiore impatto sono state quelle che hanno puntato sull’empowerment, parola che non ha un corrispettivo in italiano e che significa accrescere le risorse economiche, sociali e culturali dei soggetti in modo da aumentarne il potere di compiere scelte non unicamente dettate dal bisogno.

Le migrazioni, è scritto nel Rapporto, sono parte della soluzione. Come anche la redistribuzione del lavoro di cura e il superamento della divisione del lavoro basata sul genere. “Un corpo di evidenze in continua crescita da ragioni a bassa fecondità come Europa ed Asia dell’est punta l’attenzione sui sistemi economici e le disuguaglianze di genere – è scritto nel Rapporto. – Per esempio, dove l’orario di lavoro degli uomini è in media più alto, limitando il loro contributo all’allevamento dei figli, le donne istruite hanno meno figli e con più frequenza non intraprendono una maternità“. Percentuale che diminuisce drasticamente dove l’orario di lavoro degli uomini è minore ed essi sono ingaggiati nel lavoro di cura. Insomma, quando la cura dei figli ricade solo sulle madri, senza supporto della famiglia estesa o di servizi statali, i risultati sia per le donne che per le nascite non sono ottimali.

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