Ogni quattro anni, con le estati olimpiche a riempire giornali ed esultanze, spunta qualche atleta che dal semi anonimato passa alla gloria. Questione di minuti: di prestazioni più o meno perfette che valgono le medaglie ai Giochi e l’ingresso nella ristretta categoria degli sportivi che ce l’hanno fatta. Di solito succede nelle discipline minori, definite così a causa dell’insopportabile vizio di pesare l’importanza di uno sport in base al seguito di pubblico. Ma tant’è. Non è questo il punto. Fatto sta che da essere nessuno, diventi un Dio. Per qualche giorno. E approfitti della ribalta mediatica. E ripensi a tutti i sacrifici fatti. E partono i ringraziamenti. Fateci caso: il primo grazie di solito è per “il mio maestro, quello che ha creduto in me e mi ha spinto a continuare nonostante le difficoltà”. Ecco: i primi maestri, quelli che insegnano sport, che crescono uomini e donne per farli diventare campioni. Vogliamo raccontarli così: capire il loro modo di intendere la competizione, scoprire i loro metodi, conoscere i loro aneddoti, sapere da chi hanno imparato. Ci saranno maestri noti e meno noti, espressione di discipline con grande o poco seguito. Unico comune denominatore: loro sono lo sport che insegnano e che hanno contribuito a migliorare. (Pi.Gi.Ci.)

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“Ho incontrato nella mia carriera di calciatore tante persone molto valide e ognuna di queste mi ha donato qualcosa. Quando sono passato in prima squadra ho imparato dagli allenatori, dai loro collaboratori, dalle città nelle quali giocavo. Allora non sapevo che avrei fatto l’allenatore, ma sono stato fortunato ad avere avuto a Brescia Renato Gei. Lui e il suo vice Cecco Lamberti erano due vecchi bresciani che parlavano una volta soltanto usando al massimo due parole, ma bastavano perché ti facevano capire già tutto. Entrambi erano dotati di grande umanità e professionalità”. Ottavio Bianchi, ottanta anni il prossimo ottobre, è stato l’allenatore del primo scudetto del Napoli. Pur essendo stato in precedenza un ottimo calciatore (con un paio di presenze pure in Nazionale) ha vinto molto di più da allenatore: con gli azzurri ha conquistato anche una Coppa Italia (poi vinta nuovamente anche con la Roma) e una Coppa Uefa. Ha giocato con Sivori e allenato Maradona.

“Pesaola aveva caratteristiche completamente diverse da Gei. Se il bresciano era chiuso, un po’ come me, il Petisso era un argentino napoletanizzato, molto espansivo, un mix di arguzia e ironia. L’ho avuto da calciatore ai tempi di Sivori e poi frequentato anche da collega. A Napoli una volta alla settimana si cenava insieme. Era divertentissimo, mi prendeva in giro, sapeva sdrammatizzare ogni tipo di situazione”.

Ha avuto anche Nereo Rocco?
“Per troppo poco tempo e mi dispiace: sotto la sua scorza nascondeva una forte sensibilità”.

Erano gli anni Sessanta e Settanta.
“Ero un ragazzo. Gei lo chiamavamo signore… non mister. Gli si dava sempre del lei. Era il rispetto che si portava una volta. Ma io non rimprovero nessuno dei giocatori che ho avuto da allenatore, erano semplicemente anni diversi”.

Stiamo parlando degli Ottanta e dei Novanta. E adesso com’è?
“Non lo so. Vedo che gli allenatori hanno attorno a loro degli staff enormi. Io avevo un collaboratore principale, l’allenatore dei portieri, il preparatore atletico che faceva anche il recupero degli infortunati. Io preparavo l’allenamento il giorno prima da solo, diverso per giovani e vecchi. Era impegnativo ma molto bello, poi al campo ci dividevamo i compiti con il mio vice”.

Nelle giovanili ha avuto qualche maestro?
“L’austriaco Karl Neschy. Al Brescia arrivai a 13 anni e fino ai 17 lavorai con lui, ingaggiato dal presidente Carlino Beretta. Neschy, tante partite in Nazionale, faceva parte della scuola danubiana. Bellissima persona, sotto il profilo tecnico sapeva tutto. Se uscivi dalla sua scuola eri perfetto nel comportamento e tecnicamente: destro sinistro, stop, tiro da tutte le parti. Anche tatticamente ti insegnava molto: mi fece giocare in tutte le zone del campo, meno che in porta. Già all’avanguardia in questo perché una volta ti insegnavano un solo ruolo”.

Prima di arrivare nel settore giovanile del Brescia dove giocava?
“Frequentavo l’oratorio di Cristo Re. Le selezioni del Brescia si facevano in parrocchia alla domenica dopo la messa. Si disputavano tornei a sei giocatori con osservatori delle squadre a bordo campo. Non andavano all’estero a prendere i ragazzi, ma di parrocchia in parrocchia. Poi ti facevano provare allo stadio e ne sceglievano una decina”.

Lei che ragazzo era?
“Io ero educato, mai mancato di rispetto ai vari allenatori. Anche loro mi hanno sempre trattato bene. Ho tentato di seguire i loro insegnamenti, una volta diventato mister. Ma i miei vecchi allenatori erano avvantaggiati, il mondo era diverso. Agli anziani per esempio non si mancava di rispetto. Me lo insegnò Don Nicola, personale eccezionale. I miei genitori erano buonissimi, ma non potevo permettermi di comportarmi male”.

Da calciatore non riuscì a ottenere gli stessi successi che ebbe poi da allenatore. Perché?
“Non ho giocato mai con le big. Ma il Brescia in A, fu un successo incredibile in città. Quando ero calciatore al Napoli, vincevano solo le squadre del nord. Eravamo forti, ma mancavamo nell’organizzazione”.

Al Napoli ritornò come allenatore.
“Io non volevo andarci, Allodi ha dovuto insistere molto perché pensavo che sarebbe stato difficile vincere. Io conoscevo vita, morte e miracoli della città. Sono sempre stato uno studioso dell’ambiente sociale di una città. Perché una cosa è allenare a Como, un’altra ad Avellino. Un’altra ancora a Napoli o a Roma”.

Ha imparato anche dai suoi allievi?
“Certo! Quando ho smesso di allenare, mi sono detto: proprio adesso che ho iniziato a capire qualcosa… Si impara guardando i movimenti di un calciatore in allenamento oppure parlandoci. Questa cosa la facevo anche da calciatore, in settimana quando alla domenica dovevo marcare un avversario forte chiedevo ad un suo ex compagno di illustrarmi i movimenti in campo”.

Cambiava molto le sue strategie in base a chi aveva in squadra?
“A Como avevo ragazzi giovani, educatissimi, ma con poca esperienza. Dovevo mandarli fuori dal campo sennò sarebbero rimasti ad allenarsi fino a sera. Non dovevo alzare troppo la voce perché il loro morale sarebbe finito sotto le scarpe. In altre stagioni con vecchi marpioni non potevo fare così, mi avrebbero mangiato. In questo caso è servita una dittatura democratica”.

A Como ha avuto il portiere Giuliano Giuliani, che poi avrebbe ritrovato anche a Napoli. Ha letto l’ottimo libro “Giuliano Giuliani, più solo di un portiere” di Paolo Tomaselli (66thand2nd)?
“No, mi fa troppo male la sua storia. Era un bravissimo ragazzo, a cui mi sentivo molto legato, voglio ricordarmelo quando era in pieno della vigoria psicofisica. Sono già triste di mio, mi perdoni”.

Ai campioni si può insegnare qualcosa?
“È molto più facile lavorare con loro che con quelli che si credono tali. I campioni sono sempre pronti a imparare”.

Anche Sivori?
“A Sivori gli veniva da vomitare prima di ogni match, allora un compagno molto bravo fisicamente ma con brutti piedi gli fa: Cabezon, anche per una partita da poco ti agiti così? Io sono Sivori, gli fa Omar, e quando esco lì devo dimostrare ogni volta di essere Sivori. Ora mi scusi, ma i miei famigliari mi reclamano. Non sono abituati a sentirmi parlare così tanto al telefono”.

Un’ultimissima domanda, allora. Come sta vivendo la straordinaria cavalcata del Napoli odierno?
“Con grande gioia, sono contentissimo: nessuno se lo aspettava, sono stati sostituiti alcuni calciatori forti e sembrava un ridimensionamento, eppure i nuovi acquisti si sono rivelati incredibili. La squadra sta giocando benissimo, meglio di così non si può, anche perché le altre hanno balbettato. Spalletti e tutta la società ha fatto un lavoro enorme”.

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