Il Def di aprile del governo Meloni ha portato con sé un ovetto di Pasqua, la riduzione del cuneo fiscale per i lavoratori dipendenti a basso reddito. Con questo documento inizia il complesso iter, italiano ma soprattutto in chiave europea, della formazione del bilancio dello stato che avrà una ulteriore tappa importante a settembre, con la Nadef, e ad ottobre con la sua formalizzazione per la approvazione definitiva.

Un primo passo, ma forse quello più importante, perché contiene le previsioni sui dati macroeconomici di fondo, inflazione, crescita e saldi della finanza pubblica per il 2023. Insomma, da questo documento iniziale il bilancio definitivo difficilmente si potrà discostare.

Che indicazioni ci offre questo primo documento finanziario dell’era Meloni? L’aspetto principale è che il bluff fiscale della destra governativa risulta completamente smascherato. Il documento, dalle prime anticipazioni – ma lo vedremo meglio nel dettaglio quando sarà pubblicato – non sembra contenere alcuna indicazione di quella rivoluzione fiscale, meno tasse per tutti, con la quale Meloni e tutto il centro destra hanno vinto la sfida elettorale del settembre 2022, quindi solo qualche mese fa.

Ora, abbandonati i toni da kamikaze fiscale per convincere gli elettori dubbiosi, il governo ha sposato, almeno a parole, la linea della prudenza e della credibilità nei conti pubblici. Un totale dietrofront che già si era intravisto nella finanziaria per il 2023 ma che non per questo risulta meno sorprendente e contraddittorio nel Def di aprile.

Se dal fisco, promesso ipocritamente leggero, si passa poi al capitolo pensioni, il naufragio è ancora più completo. Non sembrano esserci le ingenti risorse per costruire una riforma delle pensioni in senso anti-Fornero. Anzi, si manterrà anche quest’anno il taglio di quelle sopra i duemila euro lordi – che una gran cifra proprio non è. Né probabilmente potranno esserci, perché l’Italia demograficamente è uno dei paesi più longevi del mondo e tornare indietro, al netto degli opportuni aggiustamenti, è una follia finanziaria. Qualcuno dovrebbe spiegarlo a Salvini, così ci risparmieremmo dichiarazioni a volte veramente imbarazzanti per un ministro in carica.

Ma poiché il vizio della demagogia economica è duro a morire e bisogna pur alimentare la ricerca del consenso, ecco che qualcosa la signora Meloni ha tirato fuori dal cilindro della finanza pubblica, oramai vero bancomat elettorale. Si tratta della proposta di una riduzione già in corso d’anno del cuneo fiscale sui redditi medio-bassi di circa 20 euro lordi al mese, probabilmente per sei mesi. Costo per le casse pubbliche: circa tre miliardi.

Provvedimento del tutto demagogico perché i soldi non ci sono e la stessa Meloni ha dichiarato che questa somma è stata ricavata con una “revisione al rialzo responsabile delle stime di crescita del Pil”. Questo, l’eccessivo ottimismo nelle previsioni, è un vizietto di tutti i governi che si sperava ormai tramontato. Insomma, il nuovo tesoretto è frutto di un mero trucchetto contabile che stride con quell’aura di responsabilità fiscale che la Meloni va predicando.

Ancora più discutibile è la motivazione generale che sta alla base di questa scelta. Guardando alle recenti finanziarie, la riduzione temporanea del cuneo fiscale è stata un’invenzione di Draghi, giustificata con l’intensità della pandemia e resa possibile dalla crescita economica del 2022. Poi la decisione, 5 miliardi, è stata confermata dalla finanziaria 2023 pur in un contesto del tutto cambiato e ora si aggiungono altre somme.

Cambia però la loro giustificazione economica. Meloni ha dichiarato che con questo intervento si vuole impedire l’insorgere di quella spirale prezzi-salari che sarebbe molto nociva per l’economia. Con l’aumento dello stipendio a carico del bilancio pubblico, la speranza di Meloni è che i sindacati siano meno esigenti nelle loro richieste di incrementi salariali, come se l’inflazione fosse colpa dei salari. Insomma una premier tutta in versione filo-industriale.

Giustificazione poco difendibile per molte ragioni. In primo luogo perché questa spirale finora non c’è stata, visto che i salari sono lontani dai rinnovi contrattuali e che molte imprese sono intervenute spontaneamente con dei bonus. Quando cominceranno le trattative, i lavoratori semplicemente chiederanno una parte dei profitti che le imprese stanno accumulando dopo la caduta dei costi dell’energia secondo una normale logica economica.

In secondo luogo, la lotta all’inflazione va fatta tassando i profitti delle imprese e non usando le casse dell’Inps già esauste. La premier aveva promesso una forte tassazione degli extra profitti che però non si è vista e invece va ad aumentare il deficit pubblico.

In terzo luogo, pensare ad una tregua salariale pagata a debito dallo Stato è fare un bel regalo alle imprese che in questo periodo non ne hanno bisogno. Insomma, non serve spendere miliardi che non si hanno per accontentare un pochino Confindustria, che naturalmente è insoddisfatta perché chiede molto di più.

A giudicare dalle prime informazioni, il primo Def della Melonieconomics non si discosta molto da tutti gli altri precedenti. Non c’è stato quel cambiamento radicale prospettato con italico orgoglio ad ogni dichiarazione. Le ragioni sono molto semplici, per chi le vuole vedere, e ben note da tempo. La bassa crescita economica, l’alto costo del debito e l’inflazione ancora molto elevata non consentono grandi voli pindarici.

Per nascondere il fallimento strategico delle molte promesse elettorali che non saranno mantenute, il ministro della signora Meloni si è inventato questa modesta, e ancora una volta a debito, riduzione del cuneo fiscale. Ma questa foglia di fico non nasconde i limiti in campo economico della destra sovranista, che sono tanti e si mostreranno sempre più. Ai cittadini spetta il compito, non così difficile, di trarre le debite conseguenze.

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