Avrebbe dovuto essere un soggiorno breve e misurato. Il tempo per organizzare il servizio di accoglienza per i migranti di passaggio a Niamey, nel Niger. Era questo il motivo per cui ero stato invitato dall’allora vescovo della diocesi omonima dove, al momento dell’arrivo, i migranti erano chiamati ‘esodanti’ oppure più semplicemente ancora ‘avventurieri’. Entrambe queste figure facevano parte del paesaggio culturale dell’Africa Occidentale, una delle regioni tra le più ‘mobili’ del mondo. Il passaggio di frontiere per cercare altrove fortuna e lavoro è parte integrante dell’identità dei popoli del Sahel. Con le scelte geopolitiche dell’Occidente che includevano l’esternalizzazione delle frontiere e accordi bilaterali di riammissione in cambio di aiuti e progetti, la mobilità umana è stata vista con sospetto e infine criminalizzata. Il migrante è un errante.

Giusto il tempo di strutturare il servizio e poi ripartire per un altro Paese con altre sfide da assumere. Gli occhi erano ancora segnati dagli anni passati come ospite nel millenario chiostro delle Vigne, nel cuore del Centro Storico di Genova. La sera con le luci al Porto Antico delle Grandi Navi Veloci e la domenica pomeriggio stupito dai ‘palazzoni’ da crociera a piani che riempivano l’orizzonte del porto dove, all’epoca, partivano i migranti nostrani per le Americhe. Con nella mente i cancelli del carcere di Marassi, i colloqui con i detenuti e le celebrazioni a parte per i ‘ristretti’ e il reparto degli accusati per appartenenza alla mafia. L’accompagnamento di alcune comuntà straniere dell’America Latina, dell’Asia e le sorelle africane che cercavano, in Via della Maddalena e dintorni, ciò che pensavano di avere smarrito in Nigeria.

Era il 5 aprile del 2011. L’arrivo all’aeroporto internazionale Diori Hamani accolto dal confratello che poi sarebbe stato rapito per due anni dal Sahel al deserto del Sahara. La Riva e il Mare (di sabbia), ciò è quanto significano le due parole che nominano il mistero geografico e umano che ci costituisce. La crisi libica, avvenuta pochi mesi dopo, avrebbe accelerato il processo della fondazione del servizio per i migranti. Sarebbero stati loro, da allora, a dettare il luogo, lo stile, le scelte e il metodo per leggere la realtà di questa porzione d’Africa che avrei avuto il privilegio di abitare.

Le storie che solo la sabbia, la polvere e il vento avrebbero raccontato attraverso le centinaia di migranti incontrati e poi perduti nel viaggio. Episodi di ordinaria violenza e sofferenza, come sempre intessuta di incosciente speranza, che i migranti rovesciavano sul pavimento poco levigato della memoria fuggente dei ricordi.

Assieme alla vergogna delle chiese incendiate nel 2015 a Niamey e Zinder, sarebbe stato questo il dono più grande ricevuto in questi anni. Una chiave preziosa perché in grado di aprire lo sguardo sul sistema di predazione che costituisce l’economia politica del mondo. Il sistema capitalista che appplica e scava con cinismo il baratro che divide il mondo per meglio regnare.

Allora, con la vista da ‘questo’ punto, diventa tutto più chiaro e semplice. Le frontiere come metafore che, con inesorabile processo, sono disegnate a forma di barriera, filo spinato o mare/muro che inghiotte chi viene a salvare l’Occidente dalla sua irrimediabile perdita. Essi, i migranti e loro nomi, mi hanno perso e salvato tante volte in questi anni e lo so, non sono neppure degno di sciogliere i legacci delle loro borse piene di nulla. Tanto fanno che persino Dio sta dalla loro parte e loro ne sono consapevoli sia quando attraversano il deserto che quando carezzano il mare. Arriveranno di sicuro, se Dio vorrà. E oggi, l’anniversario del mio primo arrivo, ci sono 43 gradi all’ombra alle 15 in punto. Sempre se Dio vorrà ce la caveremo anche stavolta.

Niamey, 5 aprile 2023

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