In Turchia ci sono più di 600 dighe e, da molti anni, c’è un progetto per costruirne altre 22 nella regione meridionale dell’Anatolia, quella recentemente colpita dal terremoto. Finora ne sono state completate una decina, che invasano complessivamente circa 120 miliardi di metri cubi d’acqua.

L’iniziativa ha generato un grave contenzioso con la Siria, l’Iraq e l’Iran, i paesi di valle che condividono l’uso delle acque del Tigri e dell’Eufrate (vedi, per esempio, Sofer, A., Rivers of Fire: The Conflict Over Water in the Middle East, Lanham MD: Rowman & Littlefield, 1999). Negli anni, la presenza di un carico idraulico da 120 miliardi di tonnellate ha suscitato anche forti perplessità di natura sismica. Queste dighe sono state costruite in un territorio a elevata pericolosità sismica, in presenza di una serie di faglie attive che segnano il limite tra diverse placche tettoniche: quella anatolica, l’Eurasia e la placca araba.

In molte aree della Terra, abbiamo sperimentato come un grande bacino idrico possa innescare fenomeni sismici locali, sia durante la costruzione della diga, sia nella fase di invaso iniziale, sia in quella di riempimento ciclico. La diga Atatürk sull’Eufrate è la più grande diga della Turchia (vedi Figura 1) e giace in una zona notoriamente sismica, non lontana dalla faglia di Bozova.

Per questo motivo, negli ultimi anni la rete di monitoraggio era stata rafforzata, svelando un aumento della sismicità (magnitudo superiore a 3,5) dopo il riempimento dell’invaso. In realtà, uno studio recente indicava come il livello idrico e il tasso sismico siano anti-correlati, forse perché l’acqua invasata ha un effetto stabilizzante sulle faglie locali. Per contro, questo stesso studio dimostrava come lo stress effettivo nella zona circostante fosse aumentato a causa della diffusione della pressione interstiziale, che ha amplificato la sismicità di fondo negli ultimi anni.

E lo stress si è concentrato proprio nella regione di Samsat, dove si sono verificati due terremoti dannosi nel 2017 e nel 2018 (Büyükakpınar P. & alii, Reservoir-Triggered Earthquakes around the Atatürk Dam, Front. Earth Sci., 9, 2021).

Sono 107 le dighe entro un raggio di 200 chilometri dall’epicentro del terremoto anatolico del 6 febbraio 2023, tra cui le dighe Ataturk, Karakaya e Keban sull’Eufrate. Valutare la loro risposta al fortissimo sisma del mese scorso è fondamentale per comprendere la resistenza e la resilienza di questo tipo di infrastrutture, giacché l’intensità del sisma ha toccato il XII grado della scala Mercalli, quello apocalittico. Il rapporto preliminare della Turkish Society on Dam Safety offre indicazioni abbastanza confortanti rispetto ai forti timori causati dalla sequenza sismica.

L’esame ha riguardato in primo luogo le dighe più vicine ai due principali epicentri della sequenza sismica, Pazarcık (magnitudo 7,7) e Elbistan (magnitudo 7,5). Le dighe che hanno subito danni sono state gradualmente vuotate, rimandando una dettagliata ispezione al termine della fase di emergenza. Al momento, la diga più compromessa pare quella di Sultansuyu, una diga in terra alta 60 metri a uso irriguo in esercizio dal 1992, dove l’invaso è stato svuotato per via delle grosse crepe sul corpo diga (vedi Figura 2).

Procedura attuata anche per l’analoga diga di Afrin — sempre in terra alta 73 metri, a uso irriguo e idroelettrico, in esercizio dal 1977 — dove si sono osservate alcune crepe longitudinali. È in fase di ispezione un’altra diga, quelle di Kartalkaya a uso multiplo — irriguo, potabile e difesa dalle piene — dove sono stati osservati cedimenti e crepe nel rilevato, soprattutto nel coronamento.

In altre due dighe, Ayvali alta 103 metri e Yarseli alta 44 metri, sono state riscontrate piccole e sistematiche crepe nel corpo diga. Alcuni video pubblicati sui social media siriani adombrano il sospetto che le autorità turche abbiano aperto le paratoie della diga Ataturk, probabilmente come misura precauzionale. Tuttavia, l’attendibilità della notizia è incerta, per via del persistente contenzioso tra i due paesi in materia di governo delle acque. E l’amministrazione turca, che ha sollecitamente posto sotto osservazione le dighe più a rischio, non ha dato alcuna notizia in merito.

Se precauzione c’era stata, era stata comunque sacrosanta se condotta con cura e rispetto per gli agnelli di valle. Eventuali rotture avrebbero potuto provocare una ulteriore catastrofe lungo le rive dei fiumi, densamente popolate. Secondo un rapporto delle Nazioni Unite, la provincia siriana di Salqin è stata investita da una piena artificiale causata dal danneggiamento di una diga turca sul fiume Orontes. L’8 febbraio 2023, nel villaggio di Al-Tloul sono state evacuate circa 500 famiglie, ma è difficile stabilire un nesso diretto, poiché il fiume era già in piena dopo le forti piogge. Pochi giorni dopo, l’11 febbraio, circa mille case sono state inondate e settemila persone evacuate a Hardana e Jakara, sempre nello stesso distretto (vedi Figura 3). E una sequenza di inondazioni locali sono state prodotte in Anatolia per via delle piene impulsive, un mese dopo il terremoto.

La sostanziale tenuta del vasto sistema dei laghi artificiali turchi testimonia una significativa resistenza di queste infrastrutture. Un risultato confortante. È però difficile stabilire con certezza se le dighe abbiamo o meno un ruolo nel verificarsi dei terremoti. Con imparzialità e senza pregiudizi, bisogna condurre studi approfonditi sulla questione per escludere una loro influenza sismica.

La catastrofe del 2023 che ha colpito la Turchia e la Siria consentirà di migliorare il bagaglio di conoscenze su uno dei nodi infrastrutturali più importanti ai fini della transizione energetica. Gli invasi artificiali hanno una storica, diretta funzione di produzione dell’energia elettrica, ma sono anche la risorsa più importante per accumulare l’energia prodotta dalle fonti rinnovabili che andrebbe altrimenti dispersa.

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