Sono passati all’incirca due anni dall’ultimo post che ho scritto per i blog de ilfattoquotidiano.it. Due anni non sono molti nella vita di una persona, di certo non lo sono per l’evoluzione del pianeta e dell’umanità, eppure alle volte mi domando se questi anni non siano stati percepiti in maniera più viscerale di quello che il semplice conteggio dei giorni non dica. Sembra come se qualcuno avesse premuto il fast forward di una vecchia vhs e sia arrivato alla fine del film molto prima di quanto ci si aspettasse. E mentre i titoli di coda scorrono veloci sullo schermo nero, ci rendiamo conto che la storia termina in modo diverso da come l’avevamo immaginata.

Altre volte, invece, mi pare che al netto di tutto, il mondo e la società non si siano trasformati poi così tanto. Ma probabilmente è perché l’essere umano, anche dopo gli scossoni più violenti, riesce a trovare il (proprio) modo di riprendere la strada, seppur azzoppato o barcollante. Se mi guardo indietro però, beh, di cose ne sono successe e forse quella scossa, più che riportarci su una strada diversa, ci ha proprio messo su un’altra traiettoria. Nonostante oggi sembri un ricordo a tratti sbiadito, il Covid ha messo sottosopra la vita di molti; chi per breve tempo, chi con strascichi (non necessariamente medici) più lunghi.

È come se da quel punto zero le cose abbiano cominciato a girare in maniera diversa e la nostra vita di ieri ci appaia offuscata e remota. Lo smart working è diventato parte della nostra vita lavorativa, gli studenti hanno preso definitivamente confidenza con l’apprendimento digitale, il rapporto scuola-casa è ancora soprattutto virtuale, un numero rilevante di persone indossa ancora le mascherine, le interazioni personali – in particolare tra i giovani – sono diventate più complicate, creano ansia, diffidenza e inadattabilità.

C’è chi ha perso il lavoro, chi l’ha ritrovato mutato o falcidiato nei diritti, chi si è reinventato, chi ha deciso di diventare un “nomade digitale”, chi continua invano ad attendere qualcosa che non esiste più. Molti sono arrabbiati e sentono di non aver raccolto nessuna ricompensa pattuita. In fondo, ci avevano detto che sarebbe andato tutto bene. Qualcuno ha fatto a pugni coi propri demoni, con i suoi buchi neri, altri hanno fatto i conti col proprio concetto di mortalità. Alcuni ne sono usciti, altri sono restati imbrigliati dentro una voragine senza nome, mutevole e informe. In tanti sono cambiati, ma forse non tutti ne hanno preso coscienza. Ardimentoso è trovare un senso alla vita che cambia.

Anch’io ho assaggiato la mia dose di cambiamento. Due anni fa, senza più turisti e senza più introiti, ho cominciato a disboscare il dorso di un monte. Sotto il sole estivo, quasi fosse la penitenza per una rinascita futura che ancora non intravedevo, ho ripulito dall’incuria e dall’abbandono un scampolo di terra, un tempo feconda. E ci ho piantato quello che già in passato era esistito: un vigneto. Si accuccia sopra una costa che non fa sconti a nessuno, s’inerpica caparbio e da lì, una volta conquistato il crinale, punti lo sguardo verso il mare alto.

Dicono che la terra sia bassa, dura e che non dia da vivere. In questo lembo, popolato dagli spiriti di antichi contadini, ho imparato che la terra non sta mai ferma, nemmeno quando è immota. E nel suo mutamento ti forza a cambiare con lei. Ad ogni mese, ogni stagione, sempre uguali e sempre diverse. Ci sono cambiamenti che ti tirano per i capelli, altri che arrivano in ritardo come una sposa all’altare, altri avvengono con la naturalezza di un bruco diventato farfalla. Ricette prodigiose e scappatoie miracolanti non ce ne sono. Per questo bisogna continuare a cercare.

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