I problemi nel garantire il riscaldamento domestico che si pensava potessero colpire l’Europa durante il primo inverno dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina stanno in realtà interessando buona parte dell’Asia. I dati fanno impressione: le autorità afghane hanno comunicato, nel momento in cui si scrive, che dall’inizio dell’inverno sono almeno 157 le persone che hanno perso la vita a causa del gelo e delle intossicazioni causate dalle esalazioni dei mezzi di fortuna usati per trovare sollievo dalle temperature in picchiata. Il meteo non ha fatto sconti, portando la colonnina di mercurio a toccare anche i -27 gradi centigradi in alcune zone del Paese, -30 gradi in Uzbekistan e Kazakistan e temperature di poco superiori in Iran. In Kirghizistan si è addirittura congelato il lago Issyk-Kul, nome che significa “lago caldo”, una delle principali mete turistiche del Paese.

Quello in corso è infatti uno degli inverni più rigidi degli ultimi decenni e sta mettendo in luce tutti i limiti infrastrutturali di un’area che va dal territorio iraniano fino a quello pachistano, anch’esso interessato da gelo incessante e continui blackout. La situazione ha portato a un effetto domino, con reciproci tagli alle forniture di energia elettrica che hanno, data la sua nota fragilità, colpito soprattutto l’Afghanistan. Solo pochi giorni fa, ad esempio, il ministro degli Esteri di Kabul ha chiesto alle autorità uzbeche di rispettare i propri impegni in termini di esportazione di energia elettrica verso il territorio afgano, soggetta a interruzioni. Più a monte, anche il Turkmenistan, gigante del gas naturale regionale, a metà gennaio ha bloccato per alcuni giorni l’invio di metano all’Uzbekistan e alla Cina, ufficialmente per problemi tecnici legati al freddo. Le ripercussioni sono state ovviamente soprattutto di tipo sociale, con decine di vittime, migliaia di famiglie costrette a trovare riparo nelle automobili e gravi danni anche agli allevamenti e alle colture.

Non sono comunque mancate anche ripercussioni politiche di un certo peso. In Uzbekistan, il presidente Shavkat Mirziyoyev ha deciso dall’oggi al domani di rimuovere il viceministro dell’Energia, numerosi governatori regionali e il potentissimo sindaco della capitale Tashkent. In un Paese dove ogni anno si riscontrano problemi legati al riscaldamento, seppur non di questa portata, a far traboccare il vaso è stato il fatto che per la prima volta la stessa capitale sia stata colpita dai blackout e dai disagi. Uno smacco evidentemente non sopportabile per il presidente che negli ultimi anni è stato fautore della rinnovata proiezione internazionale dell’Uzbekistan e della sua appetibilità per gli investitori internazionali, una narrativa messa in crisi dai problemi domestici causati dall’inverno in corso. Un tentativo per correre ai ripari era stato fatto: appena prima della fine del 2022, Tashkent aveva infatti annunciato un accordo con il Turkmenistan per importare una quota aggiuntiva di 1,5 miliardi di metri cubi di gas naturale, oltre a quelli già abitualmente acquistati annualmente, per soddisfare il fabbisogno interno in vista della stagione invernale. Mossa che evidentemente non è bastata.

Non è solo l’Uzbekistan ad aver mostrato tutta la fragilità infrastrutturale interna, che mal si concilia con la volontà di giocare un ruolo sempre maggiore sul piano internazionale. Anche il Kazakistan, uno dei principali esportatori di petrolio a livello globale, ha infatti avuto gli stessi problemi: buona parte della rete interna che trasporta l’elettricità è infatti di epoca sovietica ed è soggetta a continui stop. Lo scorso autunno, le autorità kazache hanno addirittura dichiarato che circa il 65% delle reti elettriche regionali si trova in cattivo stato. Lo stesso Iran, ricchissimo di idrocarburi, si trova costretto a importarne una certa quota dal vicino settentrionale turkmeno perché la sua rete di distribuzione interna è talmente disastrata da non raggiungere le zone nel nord-est del Paese.

Ironia della sorte, la crisi è scoppiata poche settimane dopo la proposta di Putin a Uzbekistan e Kazakistan di creare un’unione commerciale con la Russia sul fronte del gas naturale che è stata rimandata al mittente. Tashkent e Astana hanno considerato troppo rischioso legarsi al Cremlino su questo fronte, anche se dal punto di vista commerciale l’intesa avrebbe ragion d’essere, come dimostrano gli attuali disagi. Una parziale retromarcia è però arrivata a inizio settimana, quando il ministro dell’Energia uzbeco ha incontrato i vertici di Gazprom, siglando una road map di cooperazione che prevede una fornitura di gas naturale da parte della Russia. Subito dopo la firma, le autorità di Tashkent si sono affrettate a comunicare l’assenza di qualsiasi rischio relativo alla sovranità nazionale, pericolo invece paventato solo poche settimane prima rifiutando l’iniziale proposta russa.

Va detto però che, più di nuovi accordi di fornitura, sarebbero necessari ingenti investimenti interni, indispensabili per ammodernare reti di trasmissione spesso vecchie di decenni e fatte oggetto di limitatissimi lavori di manutenzione. Più che la Russia, in questo caso sarebbe la Cina ad avere la potenza economica per impegnarsi in tal senso, anche se Pechino sembra interessata solamente a coinvolgere le repubbliche dell’area nei suoi grandiosi progetti di connettività, senza interesse per la sfera domestica delle controparti. Come accaduto in Pakistan, dove a un aumento della capacità elettrica favorito anche dall’afflusso di denaro cinese legato alla Belt and Road Initiative non hanno fatto seguito investimenti in termini di miglioramento infrastrutturale, causando i disastri degli ultimi giorni. Destinati a ripetersi.

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