Il freddo non dà tregua all’interno del cortile del castello di Buda, una delle ultime roccaforti scelte dalle truppe naziste per la resistenza contro l’Armata Rossa. Lì è posizionato un plotone di esecuzione tedesco pronto a sparare. I soldati stanno solo aspettando il via libera per eseguire un’azione ripetuta decine di volte durante quei sei anni di guerra. Di fronte ai fucili sono poste sette persone stremate dalla prigionia e dal gelo. Prigionieri di guerra, membri della resistenza o collaborazionisti. Due di loro sono però anche altro. Sono allenatori di calcio, ma non allenatori qualsiasi. Fanno parte di quella ristretta cerchia magiara venuta in Italia a rivoluzionare il gioco durante gli anni Trenta. Entrambi nati a Budapest alla fine dell’800, sudditi dell’Impero austro-ungarico. Il 28 luglio 1891 e il 21 novembre 1894 per l’esattezza. Il primo si chiama István Tóth-Potya, il secondo Géza Kertész.

Da giocatori sono stati due dei migliori interpreti d’Ungheria. Istvàn è alto un metro e sessanta, pesa circa 80 chili ma ha una tecnica fuori dal comune. È famoso per centrare la porta direttamente da calcio d’angolo. Géza invece è completamente l’opposto. Al suo metro e novanta e ai suoi movimenti lenti e poco tecnici (è soprannominato lajhár: bradipo) alterna un’intelligenza tattica e una leadership unica. Hanno intrecciato il loro percorso per la prima volta nel Ferencvàros, la squadra più titolata d’Ungheria. Quella che tradizionalmente rappresenta la borghesia. Un triennio, dal 1920 al 1923, privo di soddisfazioni prima della separazione. Da La Spezia parte una chiamata. Il presidente Guido Cerretti vuole Gezà come allenatore-giocatore. Lo scetticismo iniziale è tanto ma dura pochi mesi. Si dirada dietro ai suoi innovativi metodi di allenamento: esigente, pignolo, introduce i ritiri. La squadra ligure stravince il campionato di seconda divisione, approdando in massima serie. Il nome di Kertèsz ben presto comincia a circolare. In Italia sono in molti a volerlo.

A Carrara conquista la serie B. Un risultato che replica anche a Catanzaro, Catania e Taranto. Tutte prime volte assolute in serie cadetta. È soprattutto in Sicilia che Kertész lascia il segno, dove sfiora la serie A al termine della stagione 1934-35, conclusa al terzo posto in classifica. La chiamata dalla serie A però è inevitabile. È la Lazio a chiamarlo. Con i biancocelesti Kertész rimane due anni. Nel primo si piazza al terzo posto. Nel secondo arrivano però risultati deludenti e l’esonero a inizio campionato. L’aria è cambiata nella sua carriera e non solo. È il 1940 e la guerra imperversa in Italia come in Europa.

E Toth? Anche lui nel frattempo ha intrapreso la carriera di tecnico. E con ottimi risultati. Migliori di quelli di Kertész. Guida il Ferencvàros alla vittoria di tre campionati consecutivi, due coppe d’Ungheria e una Coppa Mitropa, antesignana della Champions League per il centro Europa. Anche lui porta metodi rivoluzionari per l’epoca. Come quello di dare a ogni calciatore una sua scheda di allenamento con i punti forti e deboli da curare. Un quinquennio d’oro che si conclude con un’altra telefonata dall’Italia. Per lui però non ci sono le realtà calcistiche del sud, ma quelle più importanti del nord. C’è subito la serie A. Prima la Triestina e poi l’Ambrosiana Inter. A Milano trova un 20enne stradotato lanciato l’anno prima dal connazionale Arpad Weisz, Giuseppe Meazza. Il duo porta i nerazzurri solo al sesto posto in graduatoria ma l’impronta di Tòth sul gioco di Peppìn rimarrà indelebile. Ma Meazza non è l’unico grande protagonista del nostro calcio passato sotto le sue mani. A Trieste Istvàn lancia Gino Colaussi (campione del mondo 1938 e autore di due reti in finale contro l’Ungheria) e un attaccante dalle origini viennesi il cui cognome Roch doveva essere italianizzato in Rocchi secondo la legislazione fascista, prima di essere trasformato in Rocco da un errore all’anagrafe. Di nome fa Nereo e avrà un impatto di una certa rilevanza nella storia del calcio italiano.

A riunire Istvàn e Géza non è però il calcio. La guerra cambia velocemente le prospettive e i due decidono di tornare in Ungheria. Tòth torna ad allenare il Ferencvàros, e, ironia della sorte, Kertész allena gli acerrimi rivali dell’Ujpést. Una situazione che muta rapidamente quando anche Budapest viene occupata dai tedeschi nel 1943. La grande comunità ebraica viene rinchiusa nel ghetto e decimata giorno dopo giorno. Una triste quotidianità che i due allenatori decidono di contrastare. Non è più tempo di calcio. Prendono contatti con la resistenza ungherese, creano una loro organizzazione, allacciano importanti rapporti con gli alleati. In poco tempo l’organizzazione di Kertész e Tòth diventa una delle più efficienti di Budapest. Sono centinaia gli ebrei che vengono nascosti in una fitta rete di case e monasteri. Molte sono le persone fatte fuggire dal paese.

Per un anno i due riescono a non destare alcun sospetto. Intanto l’Armata Rossa è sempre più vicina a liberare la capitale ungherese. Mancano solo pochi mesi di resistenza e poi tutto sarà finito. Qualcuno però denuncia Kertész e Tòth alla Gestapo. È il 6 dicembre 1944. I due allenatori vengono scoperti e arrestati. La battaglia di Budapest intanto infuria. Due mesi dopo i tedeschi decidono di tentare la fuga, prima però c’è da fare un’ultima cosa. Bisogna eliminare tutti i prigionieri. È il 6 febbraio 1945. La stessa data riportata sulle lapidi che oggi ricordano Istvàn Tòth e Géza Kertész. Sette giorni più tardi gli alleati sconfiggono definitivamente la Wehrmacht liberando Budapest.

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