di Francesco Galeazzi

Il reddito di cittadinanza, checché se ne dica, è stata una delle misure di contrasto alla povertà che ha permesso a quasi 3 milioni di persone in povertà relativa di vivere una vita dignitosa e, soprattutto, uno strumento di aiuto durante la pandemia da Covid-19. Ma se il Rdc è stata una misura utile, degna di un Paese civile, come mai il 51,5% degli italiani (fonte: izi.it) vorrebbe abolirlo? Questo motivo, secondo me, risiede in una delle emozioni più dolorose e anche meno affrontante da parte della società civile, ma che proviamo tutti indipendentemente dal nostro status sociale: l’invidia.

L’invidia è un’emozione che comporta desideri distruttivi. E’ un’emozione che può minacciare la stabilità politica e democratica in quanto ritiene che visto che solo alcuni si godono le cose belle della vita, chi non se lo può “permettere” significa che non lo merita e quindi, pervaso da un sentimento di odio, proverà il desiderio di distruggere la felicità dell’invidiato.

L’invidia, concentrandosi sui vantaggi degli altri, crea un confronto tra ciò che il mio “rivale” ha e ciò che io non ho creando una competizione a somma zero. Oltretutto è raramente soddisfatta perché i beni su cui si concentra sono distribuiti in modo diseguale in tutte le società e nessuno può davvero contare sul fatto di averne più degli altri. Ciò che caratterizza l’invidia è l’idea che gli altri abbiano le cose buone della vita mentre io no: mi sento escluso da una relazione felice, un lavoro felice, una vita sociale felice.

Ma cosa c’è alla radice dell’invidia? Alla radice c’è l’insicurezza, l’idea di non riuscire a ottenere le stesse cose che hanno gli altri. Le persone invidiose sono ossessionate dal successo, e da ciò che gli altri possiedono, confrontandolo quotidianamente con il proprio percorso personale. Difatti ho notato che quando parlo con gli altri a proposito del Rdc, sovente sono soliti rispondere con frasi del tipo: “Io ho faticato, io ho lavorato duro, io mi faccio 100km al giorno” eccetera.

Melanie Klein, psicoanalista austriaca, è stata una pioniera nel campo della psicoanalisi infantile e anche per i contributi alla teoria delle relazioni oggettuali. Sostiene che il nostro mondo adulto può essere compreso appieno solo attraverso la nostra infanzia. Descrive l’invidia come radicata nell’ansia primaria di essere separati dalle cose buone: nutrimento, amore, gratificazione. Quest’ansia, diventando persecutoria, ci rende “nemici” del nostro genitore perché crediamo che egli voglia negarci tutte le cose buone della vita. Ed è qui che entra in gioco l’invidia. Il bambino si forma l’idea che il genitore sia felice e completo e vuole quindi rovinare tale felicità.

Quindi, se l’invidia è costantemente presente, esistono delle soluzioni che ci permettano di non provarla o almeno di tenerla a bada? Pur essendo un sentimento difficile da accettare e da superare, una soluzione potrebbe essere quella di costruire una società che, a livello personale, sia in grado di infondere fiducia in ognuno di noi, e che ci permetta di vivere in quello che Donald Winnicott chiama “contesto facilitante”. Un’ambiente, cioè, dove il bambino possa crescere in un modo sano, dove si senta protetto e amato. Rapportato al contesto sociale, il contesto facilitante potrebbe essere una società che non lascia indietro nessuno, che crea le condizioni adatte per dare la possibilità a chiunque, indipendentemente dal suo luogo di nascita, di avere una vita dignitosa.

Una comunità che promuova ciò che Martha Nussbaum chiama la “cultura della virtù”, cioè di capacità personali che ognuno di noi possiede e che solo in una società come la nostra, così attenta ai diritti fondamentali, può tirare fuori. Oltre a ciò, visto che ci stiamo avviando verso una società dove di lavoro ce ne sarà sempre di meno, un’altra soluzione, a mio avviso, potrebbe essere quella dell’istituzione del Basic Income. Scommetto che così, finalmente, divisioni e invidie cesserebbero di esistere.

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