C’è un aspetto che colpisce appena si entra a Palazzo Strozzi per vedere – o meglio “co-produrre” – la mostra “Nel tuo tempo” di Olafur Eliasson (a cura di Arturo Galansino, in corso fino al 22 gennaio prossimo). E’ la sfida alla percezione che questa mostra propone fin dalla prima grande installazione site specific situata nel cortile del Palazzo: “Under the weather”, una struttura ellittica di 11 metri sospesa in aria e costituita da griglie sovrapposte che creano uno strano effetto di sfarfallio e rendono la visione precaria.

Se ci si muove sotto quest’opera, osservandola da punti di vista diversi e anche con regimi di luce diversi, la forma cambia: vista da certi punti appare circolare, da altri ellittica, ora più statica ora più mobile. Fin da subito è chiaro il senso del lavoro di questo artista danese, che concepisce l’opera non come un prodotto finito e statico, ma come un processo nel quale l’incontro con il fruitore/spettatore è essenziale. In questo senso siamo noi i co-produttori delle opere di Eliasson.

E questa è anche la ragione di intitolare la mostra “Nel tuo tempo”. Il tuo tempo inteso come tempo attuale, come tempo anche meteorologico – molte opere sono legate a stati meteorologici come la pioggia o il sole – ma soprattutto il tuo tempo inteso come tempo di percezione, di vita dell’opera e nell’opera. Sei tu, spettatore, che in certo modo “fai” l’opera.

Non nel senso dell’opera aperta di cui si parlava negli anni Sessanta, ma nel senso di una compresenza necessaria dello spettatore – che diventa dunque uno “spettautore”, un collaboratore all’esistenza stessa dell’opera. Infatti la mostra è un grande contenitore di esperienze: visitando gli ampi spazi di Palazzo Strozzi, ci si rende conto di come essi possano cambiare se riplasmati da interventi d’artista che ne valorizzano gli elementi: ad esempio le grandi finestre del piano nobile filtrano e modellano la luce attraverso vetri che, se adeguatamente sottoposti a investimenti di fasci luminosi, rivelano differenze di testura, di rifrazione, di colore.

In un’altra stanza un’opera, intitolata “How do we live together?” consiste in un arco semicircolare montato su uno specchio appeso al soffitto altissimo, da cui si estende fino al pavimento. In questo modo l’immagine reale dell’arco si prolunga nel suo riflesso nello specchio formando in un cerchio: come possiamo vivere e far vivere insieme realtà fisica e realtà riflessa, spazio reale e virtuale? Per di più, lo specchio riflette anche noi stessi che siamo nella stanza, ci fa apparire sospesi al soffitto, come pipistrelli vertiginosi in cerca di un appiglio.

Un’altra opera, “Firefly double-polyhedron sphere experiment”, consiste in due poliedri disposti uno dentro l’altro formati da facce colorate diversamente. Le piccolissime luci che sono all’interno producono strani effetti mentre i poliedri si muovono: la luce esplode, si moltiplica all’infinito grazie ai giochi di riflesso formando talvolta una rete che richiama alla mente quella celebre che avvolge Cary Grant, sospetto assassino ne Il sospetto di Alfred Hitchcock.

L’aspetto singolare della mostra è dato proprio dalla sua dimensione esperienziale e in certo modo ludica: le stanze non “contengono” opere, ma sono lo strumento di un’opera che noi stessi, attraversandole, vivendole, realizziamo: l’esperienza del sole accecante, l’interrogazione su cosa sono i colori attraverso un’altra opera caleidoscopica, “Colour spectrum kaleidoscope”, su che cosa è vedere, attraversano un po’ tutte le opere di Eliasson, ma soprattutto “Eye see you“, che gioca fin dal titolo su questa ambiguità/complessità.

E ovviamente, l’interrogazione sullo spazio, attraverso l’installazione di realtà virtuale, “Your view matter”, che propone un’esperienza cangiante nel movimento (virtuale) in una serie di solidi diversi, dalla sfera all’ottaedro, al dodecaedro ecc. Si esce dalla mostra con un senso di spaesamento riguardo alle forme della percezione, ma con una diversa consapevolezza sul ruolo dell’esperienza, dell’”esperire l’esperienza” come momento democratico dell’arte e anche come occasione di responsabilizzazione del pubblico.

Per riprendere le parole di Eliasson, che cita a sua volta Maria Lugones, non più un’arte fondata su una “percezione arrogante”, ma un’arte fondata su una “percezione affettuosa”.

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