Ansioso di non chiudere il 2022 completamente isolato sul fronte internazionale, il presidente russo Putin sta compiendo un passo falso dietro l’altro. Anche in regioni storicamente non certo ostili al ruolo di Mosca, come il Caucaso e l’Asia Centrale. L’ultima porta a essersi chiusa in faccia all’inquilino del Cremlino riguarda la dimensione energetica e la proposta avanzata a Kazakistan e Uzbekistan di creare un’unione commerciale con la Russia sul fronte del gas naturale. Obiettivo ufficiale: creare un sistema coordinato per lo scambio di metano tra le due repubbliche centro asiatiche e la Federazione russa e da queste verso altri paesi, tra cui soprattutto la Cina. I motivi commerciali non mancherebbero, considerando che Astana e Tashkent, per quanto ricche di idrocarburi, in inverno hanno difficoltà a soddisfare la domanda interna di energia in alcune aree remote. Soprattutto il Kazakistan: quest’ultimo dispone di una rete domestica di gasdotti non in grado di raggiungere ogni angolo del suo sterminato territorio, il nono al mondo in quanto a estensione, e, considerando la vicinanza geografica alla Russia, già oggi è costretto a importare gas naturale russo proveniente dalla Siberia. L’Uzbekistan condivide questa problematica, al punto da aver appena annunciato un accordo con il Turkmenistan per importare ulteriori 1,5 miliardi di metri cubi di gas naturale, oltre a quelli già abitualmente acquistati dalla repubblica confinante, per soddisfare il fabbisogno interno in vista della stagione invernale.

La proposta delle autorità russe è emersa dopo che Kazakistan e Uzbekistan hanno iniziato a parlare in via bilaterale di un possibile accordo sullo scambio facilitato di gas naturale. Questo passo verso un’integrazione regionale è stata notata con preoccupazione al Cremlino, che vede nelle repubbliche dell’area alcuni degli ultimi alleati rimasti e vuole mantenere perlomeno inalterato lo status quo attuale. Al punto da spingere Putin ad affrettarsi, in maniera piuttosto inattesa e scomposta, a cercare di inserirsi nel ballo a due che stava per iniziare. Con la sua idea, il presidente russo cercava anche di creare le condizioni affinché il gas russo potesse, perlomeno potenzialmente, fluire verso la Cina anche attraverso la condotta che collega l’Asia Centrale alla Repubblica Popolare. L’obiettivo in questo caso era creare un altro collegamento con il gigante asiatico, verso il quale Mosca già esporta decine di miliardi di metri cubi di gas naturale all’anno. Il mercato cinese è diventato ancora più importante per la Russia dopo che le esportazioni verso l’Europa sono calate drasticamente e Bruxelles ha imposto un tetto ai prezzi del petrolio importato e interrotto le importazioni via mare di greggio proveniente dalla Federazione. Aumentare la presa commerciale nei confronti di Pechino è quindi ormai una vera e propria necessità per Putin, per cercare di ravvivare almeno parzialmente le esangui casse statali.

Come anticipato, però, nonostante questi ambiziosi obiettivi, Putin ha trovato sulla sua strada una porta sbarrata. Se il Kazakistan ha perlomeno mostrato una certa apertura al progetto russo, non rifiutandolo a priori, l’Uzbekistan ha invece usato toni molto netti nel rimandare al mittente la proposta. Il ministro dell’energia uzbeco si è spinto fino ad affermare di non voler compromettere l’interesse nazionale, anche a fronte della possibilità di ricevere fondamentali forniture di gas naturale e che, anche qualora un accordo venisse siglato, si dovrebbe trattare solamente di un’intesa di natura tecnica senza alcuna imposizione di natura politica. Una presa di posizione che a sua volta ha generato una risposta piccata da parte delle autorità russe, che hanno sottolineato la portata solamente commerciale del progetto e l’assenza di qualunque secondo fine di natura (geo)politica. Lo stesso portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, ha accusato Reuters (che per prima ha dato la notizia dell’ipotetica unione commerciale) di aver male interpretato le informazioni ricevute e che nessun obiettivo politico era nel mirino di Putin.

Una smentita di prammatica che non sgombra però il tavolo dal dato geopolitico che questa vicenda rende una volta di più evidente. Nello spazio post-sovietico, e in particolare in Asia Centrale, la guerra scatenata dalla Russia nei confronti dell’Ucraina e le ricadute sul fronte energetico che hanno riguardato l’Europa hanno fatto emergere con forza la volontà di affrancarsi dalla dipendenza da Mosca. La Federazione russa, infatti, non è più vista come un partner affidabile e, soprattutto rispetto a dimensioni di assoluto peso strategico come quella della sicurezza degli approvvigionamenti energetici, qualsiasi ipotesi di accordo avanzata dal Cremlino viene letta con diffidenza. E spesso genera risposte di una nettezza impensabile solamente fino a pochi mesi fa.

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