La crisi dell’ex Ilva viene conclamata nell’aula del Senato. Le centinaia di milioni di debiti, la produzione di acciaio a singhiozzo e il perenne battere cassa del socio privato ArcelorMittal finiscono al centro di una drammatica risposta del ministro delle Imprese Adolfo Urso a un’interrogazione. Il titolare dell’ex Mise non ci gira troppo attorno: “Siamo allarmati, dobbiamo fermare questo declino inarrestabile, con questi numeri non si può andare avanti”, ha detto Urso snocciolando i dati di una fallimentare gestione del colosso franco-indiano che controlla il 60% di Acciaierie d’Italia, partecipata al 39% da Invitalia, società del ministero dell’Economia.

Centinaia di milioni di debiti con Eni e Snam – “La situazione attuale è di forte difficoltà finanziaria e di grave situazione produttiva”, è stato il messaggio del ministro. “L’amministrazione ha un peso debitorio significativo di diverse centinaia di milioni di euro verso Eni e Snam”, ha specificato confermando quanto ilfattoquotidiano.it aveva scritto negli scorsi mesi. Una vicenda che aveva portato il Cane a sei zampe a non rinnovare l’accordo per la fornitura di gas, essenziale per la produzione. “E nel contempo – ha proseguito – la produzione da 10 milioni di tonnellate del 2005 si è ridotta a 3 milioni nel 2022. La metà rispetto all’obiettivo previsto di 6 milioni di tonnellate previste”.

“Lo Stato non può essere un bancomat” – Eppure l’ex Ilva ha già ricevuto più di 850 milioni dal governo Draghi ed è in attesa del miliardo stanziato nel decreto Aiuti attorno al quale è in corso un braccio di ferro tra ArcelorMittal e Invitalia. Il governo infatti vorrebbe vincolare l’arrivo di quei soldi a un cambio del management, in particolare l’ad Lucia Morselli, espressione del socio privato che ha un ruolo molto operativo e accentratore. Anche in questo senso va letto un altro passaggio della risposta di Urso: “Lo Stato non può essere un bancomat, non può dar soldi senza un chiaro piano industriale che arresti il declino” dell’acciaieria di Taranto. Un declino, quello dell’Ilva, che per Urso è inaccettabile: “Non la nazionalizzeremo, ma bisogna creare subito un piano industriale”.

La trattativa a oltranza – Da mesi ormai tra Invitalia e ArcelorMittal è in atto una trattativa a oltranza per anticipare la salita della società del Mef al 60% del capitale. Un’operazione prevista per il 2024 che il governo vorrebbe anticipare, ma al momento non è ancora maturata un’intesa. E a complicare i piani ci sono le pendenze giudiziarie che discendono dalla sentenza del maxi-processo Ambiente Svenduto. Nel primo accordo siglato sul passaggio del controllo dal privato al pubblico, infatti, era previsto che si sarebbe potuto perfezionare solo nel caso in cui gli impianti di Taranto fossero stati liberi da qualsiasi vincolo. Al momento non è così. La Corte d’Assise di Taranto ha disposto la confisca dell’area a caldo, esecutiva solo in caso di sentenza definitiva in Cassazione.

Lo scoglio della confisca – Nelle motivazioni i giudici hanno ribadito che “anche un’eventuale realizzazione completa dei lavori previsti dall’Aia, ritenuti idonei a risolvere i problemi ambientali del siderurgico, non darebbe alcuna garanzia di certezza sul rendimento non inquinante degli impianti stessi, in considerazione del previsto incremento della produzione”. Quindi, a giudizio della Corte, anche la completa attuazione del Piano ambientale “non darebbe alcuna garanzia di superamento delle esigenze di tutela poste a fondamento del provvedimento cautelare”. Una “positiva verifica” si avrà soltanto quando “l’impianto sarà portato alla produzione autorizzata” e gli accertamenti delle autorità “verificheranno che effettivamente l’impianto non è inquinante”.

Le nuove inchieste – E a ciò si aggiunge una recente inchiesta della procura di Taranto sull’esecuzione degli stessi lavori. Oltre alla delega affidata dagli stessi pubblici ministeri alla Guardia di finanza, dopo le denunce dei sindacati, per verificare la correttezza della trasformazione in cassa integrazione di ferie e permessi chiesti dai lavoratori. Intanto si contano 2.500 persone in cassa integrazione, oltre ai 1.700 sotto l’ombrello di Ilva in amministrazione straordinaria. E a Taranto sono al lavoro solo due altoforni, con buona parte dei reparti di finitura fermi. Un disequilibrio di conti e produzione che, unito agli impianti ormai vetusti, rischia di affossare definitivamente l’acciaieria di Taranto.

Twitter: @andtundo

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