Mi risuona spesso nella mente quel monito usato dall’apostolo Paolo nella parte parenetica della Lettera ai Romani: “La carità non abbia finzioni”. Soprattutto in queste lunghe e calde giornate africane, da circa un mese, insieme a miei “compagni di avventura” dell’associazione San Benedetto Abate, cerchiamo di realizzare alcuni progetti che abbiamo pensato da tempo, per sollevare le sorti dei più indigenti. Tra questi, alcuni bambini ospiti dell’Orfanotrofio di Sakété, un popoloso villaggio a Sud-Est del Benin, ai confini con la Nigeria.

Di solito chi vuole invadere un altro Paese con la forza delle armi, anche per ragioni di stampo prettamente nazionalista, ritenute “sacrosante” come è successo in Ucraina da parte della Russia di Putin, non pensa agli effetti devastanti che la guerra produce, sia per il Paese che si intende occupare sia per il proprio: morti, feriti, case sventrate, famiglie intere costrette a fuggire dalla propria terra, un clima di terrore e di paura che un missile possa raggiungerti da un momento all’altro. Poi ci sono anche gli effetti collaterali sull’economia di buona parte del globo: disoccupazione, crescita esponenziale dei prezzi al consumo, specie i beni di prima necessità, aumento delle bollette, dei carburanti. Questo è ciò che si vede e che i media, anche grazie ad un lavoro straordinario fatto dai reporter di guerra, ci raccontano.

Ciò che non si vede, e che in pochi raccontano, sono gli effetti della guerra nei Paesi del cosiddetto Terzo mondo. Mi trovavo proprio qui, in Benin, agli inizi di marzo scorso. E dopo circa una settimana dallo scoppio della guerra in Ucraina è raddoppiato il prezzo del pane e dei carburanti. Nel corso dei mesi successivi e quadruplicato il prezzo del cemento, del ferro e del materiale elettrico. Tutto ciò ha avuto un forte impatto nell’edilizia, anche se la paga degli operai è rimasta sempre la stessa. Operai che in agricoltura e nell’edilizia spesso sono bambini che non possono andare a scuola a causa della povertà. Vengono perciò inviati dalle loro famiglie ad affrontare le lunghe e faticose giornate di lavoro, a volte anche nelle cave a spaccare pietre.

Chi paga per primo le drammatiche conseguenze della guerra sono sempre i più poveri e fragili. E’ capitato nei mesi scorsi che un bambino di meno di tre anni sia stato raccolto da un passante, attirato dal suo lamento che sembrava quello di un gattino. Gettato come se fosse un rifiuto qualsiasi nella “brusse”, tipica folta vegetazione del Sud del Benin. Non aveva la forza neanche di piangere. Jan Rosè, è questo il nome che le suore dell’Orfanotrofio Sant’Agostino di Sakété hanno dato al piccolo quando se lo sono visto recapitare al loro centro. Presentava diverse cicatrici sulla fronte e sulla testa ed una semiparesi sulla parte destra del piccolo e malnutrito corpo. Segni evidenti di violenti percosse subite da chi doveva allevarlo, aiutarlo a crescere, il papà e la mamma. La disperazione per la sopravvivenza, soprattutto da chi avverte come lame taglienti il morso della fame, offusca la mente e il cuore di molti purtroppo. Il costo di una Tac in Africa corrisponde a 150 euro, più o meno quanto si spende in Italia. Qui esistono solo servizi sanitari a pagamento. Coloro che sono ricoverati negli ospedali pubblici, oltre a pagare la diaria giornaliera, debbono provvedere anche a lenzuola e cibo, tramite i loro familiari. Dalla Tac è risultato un importante ematoma nella parte parietale sinistra del piccolo, oltre a diverse fratture craniche.

In orfanotrofio stiamo ultimando una nursery per gli ospiti più fragili, interamente finanziata da un imprenditore calabrese: Francesco Cascasi, di Vibo Valentia. La sua storia personale ed imprenditoriale verrà pubblicata su un volume in questo mese da Castelvecchi Editore. Francesco ha imparato la carità vera, quella “senza finzioni”, ricordata sopra, frequentando sin da bambino la “cattedra” dei suoi genitori, contadini entrambi. In un periodo di grave difficoltà economia vissuta in Calabria negli anni del dopoguerra, condividevano le risorse alimentari con chi ne aveva bisogno. Così quella casetta di campagna composta da un’unica stanza dove cresceva Francesco e i suoi tre fratelli veniva trasformata dalla carità di Giuseppe (sordomuto) e Maria Antonia Cascasi in quella sorta di “pandocheion”, letteralmente “locale aperto a tutti”, di cui ci parla l’evangelista Luca nel suo Vangelo a proposito del racconto del “buon Samaritano” (Lc 10, 24-35). Carità senza finzioni, non un fatto semplicemente esteriore, come elargire un po’ di elemosina, magari a chi ce la chiede con insistenza solo per levarcelo di torno. Parte sempre dal cuore e riesce, perciò, a raggiungere il cuore di chi la riceve. D’altronde, lo stesso Gesù Cristo aveva indicato, più volte e con decisione, il cuore come il “luogo” in cui si decide il valore di ciò che l’uomo fa (cf. Mt 15, 19).

A Sakété, in uno dei tanti angoli remoti e dimenticati del pianeta, da donne vestite di bianco, si testimonia l’eco di quella “carità senza ipocrisie”. Frequentare questa scuola fa crescere in umanità.

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