di Maurizio Contigiani

Giuseppe Conte ha prosciugato il Movimento dai fondatori, dall’idea di non essere né di destra né di sinistra. Ha usato la regola dei due mandati per togliere di mezzo quei maggiorenti rimasti al netto di quelli che erano stati espulsi prima (Nicola Morra, Barbara Lezzi, etc). Beppe Grillo si è autoescluso dopo l‘errore madornale che girava intorno al “Draghi è un Grillino”, forse uscito di testa dopo l’episodio del processo del figlio, nel quale l’accusa era presieduta dal numero uno della giustizia leghista, forse perché già sapeva che la condicio sine qua non di quei soldi concessi a Conte sarebbe stata la gestione diretta del Pnrr da parte europea per mezzo di Mario Draghi.

Luigi Di Maio non poteva reggere alla rinuncia di quel potere acquisito a fronte delle sue origini ed ha tradito tutto ciò che era possibile tradire. Virginia Raggi inchiodata a consigliere comunale, sempre per i due mandati, e candidata alle regionali, un nome che proprio in virtù di quella collaborazione che oggi il Pd va mendicando bisognava sbattere in faccia a quel Pd e invece dovremmo accettare Stefano Fassina, Ignazio Marino, Massimo Bray e Alessio D’Amato, tutti dinosauri della politica. E poi, la ciliegina sulla torta, Alessandro Di Battista.

Noi tutti, all’inizio, ci siamo chiesti come mai Alessandro non concorresse insieme a Conte per le politiche? Come mai il Movimento rinuncia al sicuro superamento del 20% con un binomio del genere? Oggi non c’è più niente da spiegare. Di Battista era l’ultimo ostacolo, il più accanito oppositore e nemico del Pd, il vero partito né di destra, né di sinistra, ma nella forma peggiore del termine e mi fermo qui.

Il progetto dell’avvocato di Volturara Appula è quello di prosciugare dall’interno drenando gli ultimi voti rimasti all’interno delle Ztl a questo partito in via di naturale estinzione. Giuseppe Conte vuole intestarsi la rinascita del nuovo Polo Progressista e questo è incompatibile con qualsiasi divisione di leadership. Le differenze tra i due sono incolmabili. I progetti, i modi operare, sia in termini dialettici che politici, sono diametralmente opposti, gli obiettivi sono diametralmente opposti, le ambizioni sono diametralmente opposte.

Quei sei milioni di voti al Movimento Cinque Stelle persi alle ultime elezioni sono comunque voti di chi, nel 2017, si è recato alle urne e dopo cinque anni, astenendosi, ha espresso comunque un voto, un voto di protesta, un voto di qualcuno che non ha trovato più una casa perché, quella casa, o è stata distrutta, o si è autodistrutta, non importa. Il Movimento Cinque Stelle è stato distrutto o si è autodistrutto, non importa, ma qualcuno dovrà pur fare in modo di riportare quelle persone a credere in qualcosa e questo non sarà certo Conte perché, come a destra, i voti della sinistra rimangono sempre gli stessi, magari travasano da un partito all’altro dello stesso schieramento, come dei vasi comunicanti.

Quei sei milioni di personaggi sono importanti. Il loro non voto è più importante di coloro che si sono espressi a favore di una politica insufficiente, ridicola, remissiva con i forti e forte coi deboli, a volte grottesca, a volte disonesta, opportunista e soprattutto vecchia, vecchia nei suoi schemi e nei suoi rappresentanti. Quei sei milioni aspettano qualcosa che forse non arriverà mai.

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