La notizia è che Alessandro Di Battista sta lavorando a un’associazione culturale – che sì, lo ammette lui stesso, potrà essere un movimento politico e misurarsi nell’agone elettorale. Ma non è lo scopo principale. In primo luogo perché lui non crede all’attuale democrazia rappresentativa (definita “un imbroglio, una finzione che sta arrivando al capolinea poiché il cittadino percepisce chiaramente che il suo voto non conta nulla”). In secondo luogo perché Gianroberto Casaleggio gli ha insegnato l’arte della pazienza e del momento giusto, del costruire con cura le fondamenta prima di insediarsi nei piani alti (“se avessi dato retta alle molte proposte che ho ricevuto, oggi sarei fra quelli bruciati e di cui la gente non si fida più”).

Questo signore – piaccia o meno – non le manda a dire. Ho potuto ascoltarlo dal vivo e sottoporgli una domanda insidiosa, durante il Festival Libropolis di Pietrasanta (Lucca). Una realtà aperta, mai genuflessa al mainstream, in cui non si trovano i soliti nomi imposti dal politicamente corretto e in cui, piuttosto, la sorpresa e l’argomento insolito ma provocante sono dietro ogni angolo. Senza mai perdere la serietà né l’autorevolezza.

In questo contesto Alessandro Di Battista è stato invitato per un “uno contro tutti”, cioè l’occasione per il pubblico presente di sottoporgli ogni questione senza limiti o pregiudizi. Un uno contro tutti che questo formidabile talento della politica ha trasformato in un (quasi) tutti per lui. Sì, dopo averlo osservato bene dal vivo – e senza essere mai stato un sostenitore del Movimento 5 stelle, specie nella sua frangia più estremista (o populista che dir si voglia) – posso affermare di essermi trovato di fronte a un signore capace come nessun altro di trasformare in consensi e applausi qualunque sua affermazione, anche la più discutibile.

In una parola si tratta di carisma, che deriva dal greco antico “kharis” (grazia). La si può alimentare e dirigere in direzioni più o meno opportune, ma fondamentalmente si tratta di una dote con cui si nasce. Non è tanto una dote oratoria (Di Battista parla bene ma non è Pericle), né in senso stretto politica (perché finora si è tenuto ben lontano dal dimostrare cosa può fare di concreto per migliorare la società attuale). Al momento è un talento, una straordinaria potenzialità che non vedo in nessuno dei leader politici attualmente in campo.

Insomma, se il primo partito italiano è quello dell’astensione, e se molti di coloro che hanno comunque espresso il proprio voto lo hanno fatto turandosi il naso, Alessandro Di Battista ha parecchie delle carte in regola che servono per dare la sterzata a un sistema politico perlopiù inviso, stagnante e incapace di reagire allo strapotere della finanza.

Il problema è che per ora sembrano carte individuali, legate esclusivamente alla sua persona e alle straordinarie doti comunicative di cui sopra. Non che Di Battista non abbia espresso posizioni politiche: contro la guerra in Ucraina e l’ipocrisia di una Nato che colpisce le ingiustizie soltanto quando gli fa comodo (lasciando fare a Israele il bello e cattivo tempo contro i palestinesi invasi). A favore di una democrazia diretta sul modello svizzero, in cui i cittadini siano chiamati a partecipare fattivamente alle decisioni governative tramite l’ausilio delle tecnologie mediatiche (vecchio pallino di Casaleggio senior). Sostenitore del fatto che viviamo in un mondo capovolto, dove si parla di dare il premio Nobel al belligerante Zelensky (cameriere della Nato) e si incarcera Julian Assange, paladino e martire della verità.

Il problema è che si tratta di “posizioni” politiche – per quanto mi concerne ampiamente condivisibili – ma appunto posizioni e non proposizioni. A mancare è la parte costruttiva e progettuale, la visione dell’Italia e del modello sociale che si intende costruire. È riduttivo affermare che ormai “destra e sinistra sono senza senso, perché la vera divisione è fra chi sta in alto e chi in basso”. Riduttivo, perché se intendi ridurre la forbice fra i troppi che stanno in basso e i pochissimi che stanno in alto devi elaborare una proposta programmatica che puoi anche non chiamare “destra” o “sinistra”, ma che inevitabilmente richiede una base ideologica nel senso edificante del termine.

Insomma, se Di Battista non vuole restare un’eterna promessa, né bruciarsi rovinosamente come ha fatto il Movimento 5 Stelle, a mio avviso deve evitare i due errori principali dei grillini. Quindi fornirsi di basi anche teoriche e programmatiche, nonché pensare a un sistema di selezione della classe dirigente del suo movimento, in cui al contrario di quanto avviene nel Paese (e ancor più nella politica odierna), siano premiati e valorizzati il merito e le competenze.

È un lavoro fondamentale, perché se anche Giorgia Meloni dovesse essere ingabbiata dalle maglie strette della finanza e delle istituzioni sovranazionali, a quel punto la gente non saprebbe davvero più per chi votare. E a che santo votarsi.

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