Chi vuole cercare il “responsabile” della manifestazione di piazza San Giovanni, il promotore, l’istigatore, il catalizzatore (l’etichetta ognuno se la scelga a piacere), non ha da andare lontano. Il none è Jorge Mario Bergoglio.

La tenacia e l’insistenza di papa Francesco, mese dopo mese, intervento dopo intervento, hanno dato la spinta a quell’onda di massa che ha scelto la data del 5 novembre per affermare la volontà di trovare una soluzione alla tragedia ucraina.

Per 255 giorni il pontefice argentino ha rappresentato un’ostinata voce alternativa alla passività del governo Draghi, oggi ereditata dal governo Meloni. Ha condannato ripetutamente le distruzioni e le violenze inflitte dai russi alla “martoriata Ucraina”, ha denunciato nettamente le responsabilità di Mosca e al tempo stesso ha ricordato che il conflitto non era inevitabile, che la corsa continua al riarmo è insensata, che la continuazione della guerra non porta da nessuna parte e che l’unica via d’uscita è quella millenaria: fermare i combattimenti, sedersi al tavolo e negoziare un accordo di pace.

La cosa notevole è che Bergoglio ha intercettato il sentimento e il pensiero di una larghissima parte dell’opinione pubblica italiana, probabilmente maggioritaria, e di una parte non indifferente del ceto politico, anche se spesso non osa manifestarsi.

E’ evidente che la strategia indicata da Francesco è antitetica sia all’eccitazione guerraiola di chi invoca “vittoria, vittoria” sia alla decisione unilaterale del presidente ucraino Zelensky di “non trattare con Putin” (un diktat che non è stato discusso in nessun parlamento occidentale, in nessuna riunione dell’Unione europea, in nessuna sede Nato o G7).

La risposta di chi, in campo mediatico e politico, sostiene la strategia della guerra totale a Putin per mettere in ginocchio la Russia è triplice. Si dice banalmente che “il papa fa il suo mestiere”, parla di una morale alta, e lasciamo stare lì. Oppure lo si ignora semplicemente, magari dichiarando con involontario umorismo in qualche talk show che non si può fare l’esegesi del pensiero papale.

Il terzo tipo di reazione è di passare all’insulto di quanti si riconoscono nelle posizioni di Francesco e per questo si mobilitano. E’ un florilegio raffinato: i manifestanti sarebbero anime belle senza concretezza, sono confusi, incoerenti, rispettano gli ucraini ma non vogliono sostenerli, sognano la pace e non intendono mandare a Kyiv nemmeno una fionda. Sottotesto neanche velato: così permettono alla Russia di uccidere, stuprare, distruggere e saccheggiare in terra ucraina.

Per l’osservatore un simile groviglio di insulti è segno preoccupante di un’isteria da guerra fredda, un’ubriacatura da Dottor Stranamore, che si pensava superata.

In realtà l’obiettivo della manifestazione riflette esattamente la concretezza della strategia delineata da Francesco. Una strategia fattuale e realista. Il 5 novembre chi, rispondendo al primo appello di Acli e Arci e alla mobilitazione della rete Europe for Peace (che nel frattempo ha riunito 600 sigle), arriva in piazza San Giovanni chiede una cosa precisa, che non è genericamente la pace. Chi arriva chiede un “Cessate-il-fuoco”. Una tregua dei combattimenti per aprire un tavolo di negoziati in cui esaminare i vari problemi sul tappeto. Da sempre è l’unico modo per chiudere una guerra. Prendere i singoli problemi e individuare il miglior accordo-compromesso possibile.

“Spegniamo il fuoco, ora” titola a lettere cubitali l’Avvenire. A scanso di equivoci.

Il Vaticano non è il Papeete dove si lanciano parole d’ordine tra un mojito e l’altro. Sul piano geopolitico nulla avviene per caso nei palazzi vaticani. Nelle settimane passate il presidente dell’Accademia pontificia delle Scienze sociali, l’economista Stefano Zamagni, ha pubblicato un Piano di pace per una “giusta e duratura” soluzione del conflitto. E’ un memorandum che passa in rassegna con precisione le singole questioni del conflitto (garanzie globali per l’Ucraina, neutralità, Crimea, Donbass, porti del Mar Nero, “piano Marshall” per Kyiv, impegno russo per la ricostruzione dell’Ucraina) nonché gli aspetti globali per un nuovo sistema di relazioni internazionali.

Qualcuno può pensare che si tratti di un esercizio letterario, dovuto al capriccio inventivo di Zamagni? Senza il placet della Segreteria di Stato e l’incoraggiamento di papa Francesco? Qualcuno può fingere di credere che all’Accademia pontificia delle Scienze un gruppo di lavoro internazionale, coordinato dall’economista americano Jeffrey Sachs, abbia iniziato dalla primavera scorsa ad analizzare i termini del conflitto russo-americano tanto per fare un po’ di ginnastica mentale?

In realtà il Vaticano di Francesco, con molto tatto diplomatico e cautela, sta facendo una proposta politica. Condivisibile o meno. Ma del tutto politica. Una proposta che entra nel merito dei problemi. E su cui l’opinione pubblica e i governanti sono chiamati a prendere posizione.

Giovanni XXIII è stato politico quando si è messo a disposizione per una mediazione nella crisi di Cuba del 1962. Giovanni Paolo II è stato politico quando ha sostenuto il movimento di liberazione di Solidarnosc senza mai aizzare ad uno scontro con il governo polacco e con Mosca. E ancora, Giovanni Paolo II è stato politico quando ha manovrato tutte le leve diplomatiche e di intervento pubblico possibili per impedire che Stati Uniti e Gran Bretagna ottenessero il disco verde da parte del Consiglio di sicurezza Onu per l’invasione dell’Iraq.

Francesco è politico nel momento in cui – ad una razionale analisi dei costi e delle perdite dell’insensata guerra in Ucraina, perdite per gli ucraini, per gli europei, per il mondo, costi economici alti per la popolazione degli Stati Uniti insofferente della crisi economica in arrivo – propone un immediato cessate-il-fuoco, preliminare indispensabile ad un serio negoziato.

“Non ci potrà essere una soluzione militare al conflitto perché la Russia non ha conseguito i suoi scopi strategici e perché l’Ucraina ha reagito con un forte senso di nazione. D’altra parte i territori presi dai russi non possono essere riconquistati”. Non è la predica di un prete buonista, ma il giudizio del capo di Stato maggiore della Difesa, ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone.

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