di Carmelo Zaccaria

Ci si attende molto, e a ragione, dal Pnrr, da come saranno spesi tutti quei soldi e se realmente serviranno a rimuovere gli ostacoli relativi alla vita delle persone. Con il passare del tempo il Pnrr è diventato uno di quei mantra intangibili che creano dipendenza, una panacea in grado di risolvere una volta per tutte le nostre infinite storture e inefficienze, lenire i nostri malanni. Il suo richiamo mette sollievo come la cesta degli unguenti miracolosi dei tre cerusici.

Nell’immaginario collettivo si presenta come l’ultimo salvacondotto per tentare di rimetterci in sesto, far rimbalzare la crescita, riparare i danni provocati dalla crisi pandemica, incrementare i livelli occupazionali, ed infine, ma siamo già nel campo della magia, perseguire la temeraria ambizione di rendere il nostro mondo più roseo e confortevole. Riponiamo nel Pnrr una considerazione ed una fiducia sconfinate.

Ancora è presto per sapere se la qualità dei progetti e gli investimenti in cantiere vanno in questa direzione, cioè se stanno perseguendo le priorità pubbliche incentrate su lavoro e ambiente, oppure se ambiscono a fare arricchire pochi e svelti sodali. A guardarsi intorno sembrano emergere anticipazioni piuttosto sconfortanti. Ad esempio, a proposito di diseguaglianze, non passa giorno che un nuovo miliardario entri nella lista di Forbes e non passa ora che una persona nel mondo muoia per mancanza di cure o per fame, se non per le conseguenze di una guerra. Inoltre la quota singola di ricchezza detenuta dal 10% si incrementa sempre di più, mentre quella della parte più povera continua a ridursi.

Riguardo alla sanità pubblica si è sempre riflettuto su quanto fosse essenziale il potenziamento della sua rete territoriale, quanto fosse inderogabile ammodernare le dotazioni tecnologiche della rete ospedaliera, diffondere la telemedicina e puntare direttamente su una maggiore integrazione ospedale-territorio. Invece si pensa a finanziare mega strutture in territori spesso carenti di personale specializzato, prive di impiantistica e strumentazione evoluta, che non saranno in grado di diminuire i tempi di attesa di ricoveri ed esami, mentre non scoraggerà affatto il massiccio ricorso agli appuntamenti, tanto immediati quanto costosi, con il privato, senza assolvere, ovviamente, all’obiettivo di portare le cure in prossimità del paziente.

Nel settore dell’occupazione, ai lavori marginali, infimi, si aggiunge quello che l’economista Claudia Goldin chiama “lavoro avido”, che conteggia la retribuzione in base al maggior numero di ore in cui ci si rende reperibile, che paga a dismisura un compito urgente, una chiamata impellente che arriva nel cuore della notte o durante il week-end o mentre ti accingi a sedere a tavola.

Il dipendente disposto o costretto a lavorare a chiamata, ad essere sempre disponibile in ogni momento, non si può definire lavoratore moderno, ma rientra a buon titolo nella definizione di paggio, valletto, servo. Al raffreddarsi della pandemia poi sono arrivate le elezioni e sui temi che contano, quelli ricapitolati nel Pnrr, ci siamo distratti un’altra volta. Purtroppo tra le recenti nomine governative e cariche istituzionali non si segnalano particolari sensibilità e convincimenti ideali capaci di scatenare marce furibonde contro disuguaglianze, ingiustizia sociale ed emergenze ambientali.

Si dirà che la destra di governo si è portata avanti con il lavoro imprimendo il marchio Pnrr, come rafforzativo, nell’intestazione di un Ministero, ma sembra più che altro un vessillo da sventolare, una coccarda da salvaguardare e proteggere, una superba sciccheria, un fiore all’occhiello da sfoggiare e illuminare con una luce così intensa da alterarne il valore originario, oscurandolo sino a farlo scomparire, come avviene nel racconto di E.A. Poe La lettera rubata, dove la lettera viene nascosta, per eclissarne la sua utilità, nel punto più appariscente della stanza, sul caminetto, per occultarla meglio e renderla vacua e irrintracciabile.

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