Una tappa fondamentale è stata raggiunta nell’ambito della ricerca sulla dislessia, un disturbo sempre più frequente tra i banchi di scuola ma ancora in gran parte sconosciuto. Infatti, è stata appena pubblicata sulla rivista Nature Genetics la più grande analisi genetica sulla dislessia fino ad oggi. A realizzarla, un team di scienziati guidati dall’Università di Edimburgo. I ricercatori hanno testato l’associazione tra milioni di varianti genetiche con stato di dislessia e hanno trovato 42 varianti significative. Anche un italiano presente nel team di ricerca, Alessandro Gialluisi ricercatore dell’Università degli Studi dell’Insubria e dell’IRCCS Istituto Neurologico Mediterraneo Neuromed che ha commentato: “Questo rappresenta il primo studio genome-wide, cioè svolto su tutto il genoma, ad identificare in maniera robusta geni implicati nella dislessia, per cui apre nuovi scenari non solo per una migliore comprensione delle alterazioni molecolari ad essa correlate ma anche per l’identificazione di basi genetiche condivise con altri aspetti cognitivi e neurologici. Tuttavia, – prosegue il ricercatore italiano – le basi genetiche finora identificate spiegano al massimo metà dell’ereditabilità del disturbo e non più del 6% delle abilità cognitive correlate alla lettura, per cui c’è ancora tanto da fare”.

La dislessia rappresenta il disturbo dell’apprendimento più frequente tra i banchi di scuola. Almeno il 3% degli alunni ne soffre, per un totale, secondo i dati del ministero dell’istruzione, di 187.693 studenti nell’anno scolastico 2018/2019. Si tratta un disturbo dell’apprendimento che inibisce l’abilità di lettura anche in assenza di deficit cognitivi e in presenza di un livello di istruzione adeguato. Chi è dislessico non riesce bene ad interpretare le informazioni visive, perciò durante la lettura, inverte le lettere, le salta, omette intere parole e fa fatica a leggere parole sovrapposte o in movimento. Mancanza di correttezza e di rapidità di lettura sono i primi segni che si manifestano già dalla seconda, terza elementare, ma che possono rimanere fino all’età adulta. Studi precedenti suggeriscono per la dislessia un’ereditabilità fino al 70%, ma pochi marcatori genetici convincenti erano stati trovati. Inoltre, gli studi sono stati condotti su un piccolo numero di famiglie e le prove non erano chiare.

Il nuovo studio ha coinvolto più di 50.000 adulti a cui è stata diagnosticata la dislessia e più di un milione di adulti senza dislessia. Anche se una tappa fondamentale per la conoscenza della condizione, “dobbiamo lavorare ancora molto per raggiungere una piena comprensione delle basi genetiche della dislessia” commenta Gialluisi. Primo, dovremmo lavorare sull’incremento del campione analizzato per poter raggiungere un potere predittivo del rischio di dislessia tale da poter essere utilizzato come metodo di screening dei soggetti a rischio di presentare il disturbo. In tal modo, in un futuro potremmo potenzialmente individuare bimbi a maggior rischio genetico di dislessia e implementare interventi precoci nelle scuole, per aiutarli nello sviluppare strategie alternative di apprendimento. Allo stesso tempo, dobbiamo lavorare sull’analizzare meglio le basi genetiche dei vari sottotipi di dislessia, che presenta una discreta eterogeneità a livello di domini cognitivi alterati, tuttora inesplorata”, conclude il ricercatore.

Lo studio

Lella Simone

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