Sono in 335. Civili, militari, prigionieri politici, detenuti comuni, ebrei. Tutti in quella antica cava di pozzolana situata vicino a via Ardeatina. I nazisti hanno scelto quel posto per vendicare l’attentato di via Rasella di ventiquattro ore prima, quando i partigiani romani hanno ucciso 33 soldati tedeschi. È il 24 marzo 1944. L’ordine è quello di fucilare 10 italiani per ogni tedesco. Tra le centinaia di persone che attendono di essere passati per le armi c’è n’è una diversa dalle altre: è uno degli architetti della Marcia su Roma di cui oggi cadono i 100 anni. Si chiama Aldo Finzi.

Nato a Legnago, nel Veronese, il 20 aprile 1891, Finzi studia a Parma, al collegio “Maria Luigia”. L’attività politica la conosce solo nel 1913, con l’elezione al consiglio comunale di Badia Polesine. Due anni dopo arriva il primo momento decisivo della sua vita: la Prima guerra mondiale. Per il suo sentimento patriottico è un richiamo troppo forte. Finzi si arruola volontario, ottenendo anche una medaglia d’argento al valor militare. Il motivo? Essere stato tra i protagonisti del celebre volo su Vienna guidato da Gabriele D’Annunzio nell’agosto 1918.

La vittoria italiana a Vittorio Veneto, la laurea in giurisprudenza all’Università di Ferrara, il trasferimento a Milano. Eventi che anticipano l’adesione ai Fasci di combattimento nel 1920. È un piccolo movimento politico nato l’anno precedente (alle elezioni del novembre 1919 conquista meno di 5mila a livello nazionale), eppure c’è qualcosa che lo attrae. Forse è quella vena violenta e così legata al simbolismo della Grande Guerra, oppure il fascino del suo fondatore. Un giornalista ex-socialista dato da tutti come un uomo finito. Politicamente quanto professionalmente. Si chiama Benito Mussolini.

Oppositore del patto di pacificazione con i socialisti, Finzi viene eletto alla Camera dei deputati alle elezioni del 1921. La carica di parlamentare non gli fa perdere però la sua indole squadrista. Anzi. Il suo esordio a Montecitorio è caratterizzato dall’aggressione al deputato comunista Francesco Misiano. L’anno seguente invece è alla testa delle squadre fasciste che assaltano e occupano la sede municipale di palazzo Marino a Milano, costringendo la giunta socialista alle dimissioni tramite la forza e l’intimidazione. È il 3 agosto. Mancano due mesi e mezzo alla Marcia su Roma. L’evento più importante (e mitizzato) di tutta la storia fascista. E Finzi è in prima fila. A lui Mussolini assegna il compito di prendere contatti con i direttori dei principali quotidiani milanesi allo scopo di indurli a sostenere l’iniziativa fascista. La sera del 28 ottobre c’è lui, insieme al Duce, nella sede del Popolo d’Italia in attesa di novità da Roma. Ed è sempre lui che accompagna Mussolini da Milano a Roma per ricevere l’Italia dalle mani del re Vittorio Emanuele III. Per iniziare il Ventennio. Un impegno e una devozione verso il capo che si traducono con la nomina a sottosegretario all’Interno.

Finzi è all’apice politico. Le cariche si accumulano. Non è solo membro del Gran Consiglio del Fascismo ma anche commissario per l’Aeronautica e presidente del Coni. E come spesso accade, la posizione di potere modifica anche la visione delle cose. Quello che prima era una bandiera da sventolare a più riprese, diviene oggetto da ripudiare. O, quantomeno, da addomesticare. Il radicalismo fascista delle origini viene messo da parte in nome della nuova linea normalizzatrice.

Un’ascesa personale e politica che si interrompe bruscamente quando gli squadristi Volpi, Dùmini, Malacria, Viola e Poveromo rapiscono e uccidono il deputato socialista Giacomo Matteotti. Sono circa le 16.30 del 10 giugno 1924. Il Paese – ormai assuefatto dalla violenza fascista – è attraversato da un moto di indignazione. Mussolini è a un passo dal baratro. Ha bisogno di sacrificare qualcuno. Innocente o colpevole che sia. La scelta ricade su alcuni dei suoi più stretti collaboratori. Come Cesare Rossi. Come lui, Aldo Finzi.

Le dimissioni da ogni incarico di governo segnano la fine della sua carriera politica. Finzi esterna la sua estraneità alla vicenda Matteotti e viene posto ai margini della vita pubblica. La sua quotidianità diventa principalmente l’agricoltura e la coltivazione del tabacco nella zona di Palestrina. Nel 1928 non viene ricandidato alla Camera ma la rottura con il regime non è immediata. Questa comincia a manifestarsi dieci anni dopo. Finzi è contrario alle leggi razziali che portano alla segregazione e alla deportazione dei cittadini ebrei: lui stesso era nato ebreo prima di convertirsi al cattolicesimo durante gli anni Venti. Così come sarà contrario all’entrata in guerra dell’Italia a fianco della Germania nazista. È il punto di rottura definitivo con il regime.

Per alcune dichiarazioni anti-belliciste Finzi viene spedito al confino tra Ustica, Tremiti e Larciano, prima dell’espulsione dal Pnf arrivata nel novembre 1942. Dopo l’8 settembre 1943 appoggia le formazioni partigiane, trasmettendo informazioni sui movimenti delle truppe tedesche, il cui comando insedia nella sua villa di Palestrina. Un’attività clandestina rischiosa, scoperta, annullata, incarcerata. Regina Coeli è l’ultimo passaggio di una parabola che ha condotto Aldo Finzi da Legnago alle Fosse Ardeatine. Il tutto passando dal 28 ottobre 1922. Dalla Marcia su Roma.

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