Uno dei dibattiti che più sta scaldando i commentatori del recente insediamento del governo Meloni è la ridenominazione dei ministeri. In particolare, ciò che – almeno ai miei occhi – è parso degno di discussione è la definizione del ministero affidato a Giuseppe Valditara, laddove sparisce “pubblica” e compare invece “del merito”: Ministero dell’Istruzione e del Merito. Naturalmente questo ha scatenato molteplici reazioni, soprattutto per la novità aggiunta in coda, che tanto richiama l’esecrata meritocrazia. Esecrata a giusta ragione, dal momento che essa è un’ideologia che postula di premiare i “migliori” senza tenere conto delle condizioni di partenza in questa ipotetica competizione, per tacere del fatto che essa implica che le risorse debbano essere distribuite in base a una tale competizione.

La meritocrazia, dunque, diventa in questo modo l’ideologia che serve a giustificare ex post il conseguimento di risorse, posti, posizioni che poco hanno a che fare con il merito, dal momento che considerare gli esiti di una competizione senza considerare i vantaggi competitivi indebiti detenuti dai soggetti è profondamente ingiusto e va a favore dei soliti noti. Potremmo fare, per rendere più chiara la nostra posizione, decine di esempi, a partire dal fatto che taluni competono in posizione di vantaggio perché per esempio provengono da famiglie benestanti che possono garantire una migliore istruzione di base, oppure perché sono dotati di condizioni psico-fisiche ottimali, o ancora perché possono spendere un bagaglio personale o familiare di reseaux e di capitale immateriale (avere una grande biblioteca in casa non è automaticamente un vantaggio indebito, ma può esserlo). Potremmo considerare queste differenze né giuste né ingiuste, ma occorrerebbe poi precisare che è come la politica le tratta la vera questione.

A questo proposito è necessario notare che il merito — in una accezione solidaristica che considera tutti i fattori appena elencati — esiste ed è nella nostra Costituzione repubblicana, all’art. 34. Mentre a sinistra spesso esso è stato liquidato come meritocrazia, non da ultimo perché ciò può servire a riprodurre relazioni di potere fondate sulla cooptazione. Un recente libro di successo ha contribuito a stigmatizzare la tracotanza meritocratica, che “riflette la tendenza dei vincitori a godere troppo del proprio successo, dimenticandosi della fortuna e della buona sorte che li ha aiutati nel proprio cammino” (M. Sandel, La tirannia del merito).

Sandel prende spunto dal caso delle truffe per l’ammissione ad alcune tra le più prestigiose università statunitensi, costosissimi atenei d’élite in teoria inaccessibili, e narra di come si sia scoperto che, pagando, i figli di (truffaldini) papà diventavano magicamente “meritevoli”. Ma davvero di questo parliamo quando parliamo di merito? Si prenda il nostro ordinamento, dove vige il valore legale del titolo di studio, per rimanere al caso da cui Sandel prende le mosse.

C’è da dire che talvolta la critica al merito è un’autobiografia, il riconoscimento della propria fortuna, della possibilità che alcuni hanno di “comprarsi il futuro” non solo spendendo soldi veri. Sandel legge ai propri pargoli le proprie bozze in una sorta di esclusivissimo seminario privato. Non è questo, assieme al cognome, un vantaggio competitivo?

Ma c’è da dire che la politica è cercare di capire l’altro. E allora vorrei citare quanto diceva il filosofo marxista Galvano della Volpe a proposito del riconoscimento delle capacità dei soggetti: “L’altra libertà [rispetto alla libertà borghese] è più universale: è il diritto di chiunque al riconoscimento sociale delle sue personali qualità e capacità: è la istanza democratica, veramente universale, del merito: cioè del potenziamento sociale dell’individuo e quindi della personalità. È appunto la libertà egualitaria, libertà giusta ossia libertà in funzione della giustizia: e in questo senso una sorta di libertas maior. […] Ora, […] è nel provvedere alla libertà egualitaria (compressa dal sistema sociale liberal-capitalistico) è in ciò che primieramente il titolo di erede della democrazia moderna che a sé rivendica il comunismo. Il rigore con cui il marxismo-leninismo tiene conto dell’istanza egualitaria russoiana del merito personale, a proposito della ripartizione dei prodotti del lavoro nella società comunista in senso stretto e specifico, ce lo prova, e compie il quadro suaccennato” (Galvano della Volpe, Rousseau e Marx, pp. 42-43).

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