Le due annotazioni furono modificate per far apparire Stefano Cucchi come uno che “stava male di suo” perché magro, tossicodipendente, epilettico” e la versione sulla sua morte fu “confezionata” per escludere il coinvolgimento dei vertici territoriali, proteggendone l’immagine e la carriera. Ci fu, insomma, “un’attività di sviamento” per “allontanare i sospetti che ricadevano sui carabinieri”. Nelle motivazioni della sentenza con cui l’aprile scorso ha condannato 8 carabinieri accusati di aver depistato le indagini sulla morte del geometra romano, avvenuta nell’ottobre 2009 a una settimana dal suo arresto, il giudice monocratico di Roma Roberto Nespeca non ha dubbi. Tutto venne orchestrato nelle caserme per tenere lontana dalle aule di tribunale la catena di comando.

“La versione ufficiale dell’Arma dei Carabinieri sulla morte di Stefano Cucchi” era “stata ‘confezionata’ escludendo ogni possibile coinvolgimento dei militari così che l’immagine e la carriera dei vertici territoriali e, in particolare, del comandante del Gruppo Roma, Alessandro Casarsa, non fosse minata”, si legge nelle oltre 400 pagine nelle quali si spiegano le ragioni della condanna a 5 anni del generale Casarsa, a 4 anni di Francesco Cavallo e Luciano Soligo, a 2 anni e mezzo di Luca De Cianni, a un anno e 9 mesi per Tiziano Testarmata, a un anno e 3 mesi per Francesco Di Sano, a un anno e tre mesi per Lorenzo Sabatino e a un anno e nove mesi per Massimiliano Colombo Labriola. Le accuse contestate agli otto militari dell’Arma, a vario titolo e a seconda delle posizioni, vanno dal falso, al favoreggiamento, all’omessa denuncia e calunnia. Il 4 aprile si è invece chiuso in Cassazione, con una condanna a 12 anni di carcere, il processo ad Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, i due carabinieri che pestarono Cucchi dopo l’arresto, provocandone la morte: sono stati entrambi ritenuti responsabili in via definitiva di omicidio preterintenzionale.

“È inoltre provato – scrive il giudice Nespeca – che il contenuto delle annotazioni fu modificato, in data 27 ottobre 2009, secondo le indicazioni del comandante Casarsa, modifiche che erano state sollecitate attraverso il suo ‘braccio destro’, il colonnello Francesco Cavallo, dal comandante della Compagnia dei Carabinieri Montesacro, Luciano Soligo, da cui dipendeva la Stazione Tor Sapienza, superiore gerarchico dei due firmatari”. Nel corso del processo istruito dal pm Giovanni Musarò, si legge nelle motivazioni, è emersa ed è stata accertata “un’attività di sviamento posta in essere nell’immediatezza della morte” di Cucchi “volta ad allontanare i sospetti che ricadevano sui carabinieri per evitare le possibili ricadute sul vertice di comando del territorio capitolino”. Tutti gli imputati, sentenzia il giudice, avevano la “consapevolezza” che attraverso quelle condotte “si giungeva alla modifica e all’alterazione del contenuto delle annotazioni, consentendo così di rappresentare uno Stefano Cucchi che stava male di suo, perché molto magro, tossicodipendente, epilettico”.

Il giudice monocratico scrive, inoltre, che “le ulteriori condotte realizzate nel 2015, nel contesto delle nuove indagini della Procura della Repubblica di Roma, fossero finalizzate a celare quelle di falso risalenti al 2009″ che coinvolgevano Casarsa e Cavallo “in servizio in quel momento presso il Comando Provinciale di Roma, contiguo all’ufficio del Comandante del Reparto Operativo, Colonnello Lorenzo Sabatino” considerata “la qualità dei protagonisti e dei rapporti tra alcuni di loro”. Mentre i fatti risalenti al 2018, nel corso del dibattimento del Cucchi bis, ad avviso del giudice, hanno avuto “lo scopo di svilire la credibilità di Riccardo Casamassima, teste rilevante per l’ipotesi accusatoria”.

“Deve ritenersi – si legge ancora nelle motivazioni – che la falsificazione delle due annotazioni avessero la finalità di allontanare l’attenzione dall’operato dei carabinieri così da evitare qualsiasi coinvolgimento del Comandante del Gruppo Carabinieri Roma, il colonnello Alessandro Casarsa, considerato che l’immagine dell’Arma capitolina era mediaticamente esposta e che già altri militari erano stati coinvolti nei gravi fatti in danno del presidente della Regione Lazio” Pietro Marrazzo. Allontanando i sospetti dai carabinieri, scrive sempre il giudice, “non poteva di certo mettersi in discussione l’azione di comando” da parte del vertice del Comando Gruppo Carabinieri Roma “la cui figura rischiava di essere quanto meno indebolita dalla vicenda, ancor più dopo i fatti che avevano coinvolto il presidente della Regione Lazio”.

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