di Giovanni Papa

A vedere il tragico esito di una consultazione elettorale politica, che ha marcato la più alta percentuale di non votanti dalla nascita delle Repubblica, il giorno dopo il voto non ci dovrebbe essere soddisfazione per alcun senziente amante della “partecipazione democratica”. In Italia evidentemente il dramma di quasi 4 italiani su 10 che non si sono sentiti rappresentati da una qualsiasi delle liste presenti sulla scheda elettorale, non riesce a trovare spazio, offuscato da titoloni che ignorandone la gravità, mettono in evidenza i successi relativi di partiti che, dove è andata bene, oggi rappresentano poco più di 1 elettore e mezzo su 10.

Il calcolo è semplice e matematico, ma riesce a sfuggire anche alle più note testate giornalistiche, impegnate come sempre più a far quadrare i “conti” del proprio editore, piuttosto che ad informare le persone. Nonostante il misero stato dell’informazione, che purtroppo da solo meriterebbe un trattato a parte, queste percentuali di astensionismo mai raggiunte prima, vanno a consolidare una tendenza già segnata da anni e che esprime i suoi massimi nelle zone più disagiate del paese come il meridione e nelle periferie delle grandi città come Roma ad esempio.

Un grido di sofferenza inascoltato che, in un passato neanche tanto lontano, era riuscito in parte ad essere raccolto da un sistema di ascolto capillare di un Movimento 5 stelle fondato da chi aveva una visione e una cultura della partecipazione diffusa. Se la forza politica che esprimerà il futuro presidente del Consiglio può contare su una rappresentatività di poco più del 26% degli italiani, di certo non può pesare ad alcuna soddisfazione chi dai banchi dell’opposizione, votato da mezzo italiano su 10, ha scelleratamente disperso in 5 anni 6,5 milioni di voti.

Ma poteva andare molto peggio se (fosse rimasto Impegno Civico e…) il professor Conte non ci avesse messo del suo con un recupero prodigioso che, nel solo mese di settembre – sondaggi alla mano – ha portato in cascina una forbice tra i 3 ai 5 punti percentuale. Un recupero però che per quanto ben accolto dai 5 Stelle, ha definitivamente segnato il passaggio da Movimento a partito, trainato e contraddistinto da un leader che per quanto possa essere carismatico e valido, sempre uno resta. Nulla che non si sia già visto in passato. Nulla di visionario come disegnato nel futuristico progetto iniziale di Gianroberto Casaleggio.

Nulla che non possa diventare l’ennesimo tradizionale partito dai processi interni rigorosamente gerarchici e precostituiti. Oggi il 15, domani il 18, dopodomani il 26 per poi tornare al 15 e così via. Senza avere più pretesa alcuna di permeare i territori con una partecipazione che parta da metodi condivisi e perché no, da piattaforme come Rousseau, troppo presto abbandonate per presunzione di “forza”, gettando le armi di fronte all’evasione democratica di un astensionismo mordente, il M5S è destinato a gestire “l’ordinario”.

Una volta dentro e una fuori, irrilevante nei numeri, consueto nelle pretese. Anche loro omologati ad un sistema che riesce a tenere a distanza persone “scomode” (ma per chi?) come Alessandro Di Battista o peggio neutralizzati nel far valere massicce determinazioni popolari come quella espressa nel 2011 dal 95% degli italiani sull’acqua pubblica, i 5 Stelle sembrano allineati ad uno spirito di servizio non più rivolto a quella sinergica comunità di Meet Up, che anziché essere trasformata in una organizzazione di gruppi territoriali locali decisionali, è stata cancellata senza se e senza ma.

Certo che raccogliere il testimone di colui che ha dimostrato sul campo la concreta possibilità di coinvolgere anche frange di cittadini più disillusi, portandoli a credere nelle istituzioni e nel valore del loro voto, non è cosa semplice. Oggi sono in pochi che possono spendersi la credibilità necessaria per un progetto tanto ambizioso quanto complesso. Tredici anni fa nelle stesse condizioni… qualcuno però lo ha realizzato.

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