Caos calmo o imprevisto prevedibile? Il risultato elettorale balzato fuori dalle urne del 25 settembre si direbbe l’apoteosi dell’ossimoro: la Meloni si allinea alle previsioni e stravince; ma nel contesto di una destra altamente instabile, con Salvini che incassa la metà dei consensi di cui era accreditato (e la mina vagante Berlusconi, dato per l’ennesima volta defunto, che risorge dal sacello). Per cui la leader di Fratelli d’Italia si ritrova a dover fare i conti, prima ancora delle incombenti questioni di governo, che vanno dalla crisi energetica a quella sociale ed economica, con la bomba ad orologeria rappresentata dalla furia egolatrica dei due partner, elettoralmente e politicamente ridimensionati eppure irrimediabilmente capricciosi: la pretesa strombazzata da Matteo Salvini di riottenere il Ministero degli Interni; quella di insediarsi alla presidenza del Senato (anticamera per la Presidenza della Repubblica) avanzata come un diritto incontrovertibile dal Nosferatu di Arcore.

Sul fronte dell’opposizione il Pd si conferma primo partito, ma nel modo peggiore possibile. Intanto la Bonino scompare mentre Calenda e soci di Azione-Italia Viva, dal basso del loro 7,7%, il tanto vagheggiato risultato a due cifre se lo scordano. Luigi Di Maio, l’Houdini di Pomigliano d’Arco, precipita nel suo stesso cilindro insieme al coniglio, mentre i Cinquestelle di Conte, desaparecidos annunciati, diventano in rimonta la vera Terza Forza della politica italiana.

Alla luce dei risultati numerici (centro-sinistra 25,5%, 5S 15,4%, Calenda &C. 7,7% = 45,9 complessivo; a fronte del 44% raggiunto dalla destra), va ribadito (a futura memoria) che se l’opposizione avesse varato il “campo largo”, predicato da Pier luigi Bersani, Goffredo Bettini e altri ragionevoli analisti, non ci avrebbe consegnati incaprettati mani e piedi a una premier selezionata e cresciuta nella cantera del Fronte della Gioventù, la palestra giovanile missina.

Resta la soddisfazione – tutto sommato modesta – di esserci liberati, insieme a un po’ di peones grazie alla sfoltitura dei seggi parlamentari, anche di alcune presenze tanto per esserci, sopravvalutate e sostanzialmente moleste; gente particolarmente versata nel far perdere tempo con la loro ansia di protagonismo: l’ultra sponsorizzato dallo star system vetero-sinistro (Jean-Luc Mélenchon, Pablo Iglesias, Jeremy Corbyn) Luigi De Magistris, rimasto fermo all’1,4% con la sua “Unione Popolare”, Gianluigi Paragone nell’imitazione padana della Brexit, inchiodata al 2%, e senza dimenticare il rieccolo Marco Rizzo, la cui “Italia sovrana e popolare” ribadisce il proprio peso all’1%. L’apoteosi dell’inutilità narcisistica. Cui si aggiunge la mattanza dei furbetti maldestri: i vari scissionisti ex Cinquestelle turlupinati dal magliaro Di Maio (tra cui Vincenzo Spadafora, Laura Castelli e Lucia Azzolina) che speravano di sfangare il vincolo del doppio mandato e ora si ritrovano a spasso.

Non meno da compiangere delle Veneri di Forza Italia alla ricerca di nuovi set: Mara Carfagna, che poi è stata recuperata nel “corso di riparazione” del proporzionale, e la geografa Mariastella Gelmini, pronta a raccogliere l’invito del National Geographic per esplorare il tunnel di collegamento tra il Gran Sasso e il Cern di Ginevra di cui è la ben nota scopritrice.

Ma ora si sente dire che queste elezioni segnano un passaggio storico nella storia nazionale. E perché? Perché una frequentatrice da tre lustri dei Palazzi della politica romana diventa Presidente del Consiglio in una situazione altamente problematica e che rischia di stritolarla appena mette piede a Palazzo Chigi? Sicché è presumibile che vorrà ripartire i rischi del governare attraverso una qualche forma di ammucchiata all’insegna del tutti insieme appassionatamente. Al tempo stesso, pensiamo ipotizzabile che un periodo di opposizione (come non ha mai sperimentato) possa far essudare al Pd gli umori maligni che l’affliggono? Allora vuol dire che non si è capita la sua reale natura: non un partito, bensì il comitato che gestisce un patrimonio elettorale e un capitale di potere in costante contrazione; team costituito da una ristretta oligarchia notabilare di modesto livello (Dario Franceschini, Lorenzo Guerini, Andrea Orlando), alla faccia dell’ingrigito popolo boccalone che ancora se la beve.

Insomma. E se invece della svolta storica fossimo in presenza della solita saga del Gattopardo, ripitturata di nero?

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