È tra i più basculanti alla Camera, così tanto da aver coperto tutto l’arco da Forza Italia al Pd e parziale ritorno verso l’altra sponda. L’ultima fermata di Gianfranco Librandi è PiùEuropa. Sembrava dovesse mettersi in proprio, voleva ingaggiare Beppe Sala e Luigi Di Maio, ma il precipitare degli eventi lo ha portato a mollare in fretta e furia Matteo Renzi, ad archiviare il suo progetto politico (almeno per ora) sposando la causa di Emma Bonino. E del resto, correva l’anno 2018, Librandi era stato chiaro nei confronti dell’ex leader radicale, in quel momento in lite con gli allora suoi dem: “Il Partito Democratico farà di tutto affinché lei e le battaglie radicali che incarna si possano sedere nel prossimo Parlamento”. Ci aveva visto lunghissimo. Ma forse non immaginava che nel corso dei quattro anni trascorsi da allora, lui sarebbe stato passato per Italia Viva, avrebbe potuto pensare a un suo partito, l’Italia c’è, e che, alla fine, sarebbe stato proprio uno dei candidati di Più Europa.

Nel proporzionale a Monza come capolista, ma non solo. Il suo sarà il volto dell’intera coalizione anche nel collegio uninominale Lombardia 1-U08 che copre una vasta area di Milano, da Parco Forlanini a Baggio. Molti quartieri periferici e popolari: l’Ortica, Barona e Giambellino. Dove, ci fosse ancora il Cerutti Gino di Giorgio Gaber che aveva “mai una lira”, si ritroverebbe a votare lui, Librandi Gianfranco, professione imprenditore, azienda da 200 milioni di euro di fatturato, e soldi, tanti soldi, elargiti alla politica. L’ultima tranche proprio al Pd lo scorso 16 agosto: 40mila euro, come raccontato dal Fatto Quotidiano. Va detto che l’epopea famigliare, recentemente diventata addirittura una trilogia disponibile (per ora il primo episodio) su Amazon Prime, affonda le radici a Saronno, padre partigiano bianco (nome di battaglia Mico). Il deputato Librandi “appena dodicenne in sella alla sua bici rialzò le sorti della sua famiglia e da semplice garzone di panetteria divenne prima operaio e poi in pochi anni un imprenditore di fama mondiale che ancora oggi porta luce e lustro non solo a Saronno, ma all’Italia intera”, ha raccontato con toni nient’affatto apologetici il regista Luciano Silighini Garagnani, che ha all’attivo anche il film Uno di noi, risposta a Loro di Paolo Sorrentino.

E quell’area lì, in fondo, è quella dove Librandi è politicamente nato. Prima volta su uno scranno nel 2004, in Consiglio comunale a Saronno, tra i banchi di Forza Italia. Se ne va nel 2009 per fondare Unione Italiana. Due anni dopo annuncia la sua candidatura come sindaco di Milano, ma alla fine appoggia Letizia Moratti e corre come consigliere comunale. Quest’anno, per sua fortuna, non deve raccogliere preferenze, che gli pioveranno addosso attraverso i voti espressi nel proporzionale, anche quelli per Alleanza Verdi-Sinistra che vorrebbero la patrimoniale sulle grandi ricchezze come le sue. Comunque meglio per Librandi, che -si diceva – undici anni fa da aspirante consigliere raccolse solo 122 voti. Per il resto, le sue elezioni, sono sempre state frutto di listini bloccati. L’ingresso alla Camera avviene nel 2013 con Scelta Civica di Mario Monti. È l’inizio dello spostamento verso il centrosinistra, che prosegue quando Enrico Zanetti avanza l’ipotesi di fusione con Ala di Denis Verdini. Librandi se ne va e aderisce al gruppo Civici e Innovatori. Un anno dopo, ecco l’ingresso nel Pd e la candidatura nel collegio plurinominale Lombardia 1-U02. La passione per i dem si spegne presto e nel 2019 segue Matteo Renzi in Italia Viva.

Librandi crede molto nel progetto, tanto che il suo nome compare (da non indagato) nell’inchiesta sulla fondazione Open per un versamento da 800mila euro. Nello stesso periodo, racconterà il settimanale L’Espresso nel gennaio 2020, un’ispezione della Guardia di Finanza nelle sedi delle sue aziende non verrà presa benissimo dall’onorevole. “Sono un intoccabile”, mentre “voi non fate un c… dal mattino alla sera io lavoro”, “pago le tasse e quindi anche il vostro stipendio”, dirà secondo la ricostruzione delle stesse Fiamme gialle durante diverse fasi della visita, sia per telefono che di persona. Lui negherà l’alterco e minaccerà di querelare per falso. A luglio dello scorso anno, ha ammesso al Fatto di non averlo mai fatto e, a proposito dell’accertamento fiscale, chiarirà: “Hanno trovato degli errori formali e abbiamo già chiuso”. Quindi si proporrà in tutto il suo mecenatismo: “Voglio finanziare anche il Fatto Quotidiano”. Del resto ha elargito contributi anche a Bruno Tabacci, Stefano Parisi, Giorgio Gori, Stefano Bonaccini, Carlo Calenda e perfino a Fratelli d’Italia. Matteo Salvini, invece, mai. Anzi, nel 2019 lanciò quello che oggi sembra un’anatema: “Sembra l’ombra di se stesso, un disco rotto con una canzone svuotata di pathos e di attualità. La Lega con Salvini ha finito la sua crescita e adesso è cominciata la parabola discendente”. I sondaggi dicono che ci aveva visto lungo.

Qualche mese dopo, addirittura arrivò una specie di endorsement per Maurizio Landini: “Chiede una grande alleanza del progresso, del lavoro e dello sviluppo tra sindacati, governo e imprese. Ecco, io un partito con Landini, le Sardine, noi di Italia Viva e tutti quelli che lavorano per un’Italia più libera e forte lo voterei subito…”. Non l’ultimo dei punti in contatto con il segretario generale della Cgil. Perché a marzo Librandi è parso disallineato dai renziani sull’invasione dell’Ucraina, almeno all’inizio. Il 16 marzo ammoniva: “Bisogna trovare il modo per fare ragionare Putin, per farlo vorrei riuscire a convincere i miei colleghi, a cui scriverò una lettera, a formare una delegazione con l’obiettivo di riuscire a parlare direttamente con il leader russo, magari attraverso l’ambasciatore, per fargli capire che ha sbagliato”. E il giorno dopo si è astenuto, insieme a Stefano Fassina ed Erasmo Palazzotto, sul decreto Ucraina. L’ennesimo scivolamento a sinistra? Non proprio. Anche perché, per dire, il suo pensiero sul leader di Articolo 1 Roberto Speranza non è proprio dei più lusinghieri. In una delle sue deluchiane “interviste” su Facebook, sotto il nome di La graticola di Librandi, nel luglio 2021 parlava così del ministro della Salute: “Speranza è ancora lì, siamo un Paese ancora in difficoltà”. Quindi lo definì “questo” che “non decide, danneggiando gli italiani”.

E quando l’interlocutore gli fece notare che parlava come Salvini, Librandi tagliò corto sul ministro: “Lui ha il culo al caldo, del resto non gliene frega un cazzo”. La favella esuberante gli è spesso valsa titoli e polemiche durante gli interventi a La Zanzara. Il suo eloquio strabordante ha spesso partorito paragone un filo pomposi. Una volta definì Sala un “Marco Aurelio” e più recentemente per il sindaco di Milano e il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha usato parole al miele: “Sono entrambi politici bravissimi. Il nostro veliero ha bisogno di nostromi famosi che sappiano indicare le rotte giuste”. Era il 18 giugno e, insieme a Piercamillo Falasca, Librandi aveva appena lanciato il movimento l’Italia c’è. Appuntamento a settembre a Milano per dare sostanza alla “cosa centrista” dopo essere stato l’ispiratore della lista Riformisti con Sala che ha sostenuto il sindaco per la sua rielezione. Poi la crisi di governo, le elezioni anticipate e la necessità di riposizionarsi. Addio a Renzi e Calenda, perché non hanno “l’appeal necessario”. Ecco quindi Più Europa, la sponda del Pd e il viaggio con l’Alleanza Verdi-Sinistra. L’ultimo movimento oscillante di Gianfranco Librandi, che riparte dal Giambellino per atterrare a Montecitorio. Sfida complicatissima. Senza paracadute? Macché. Il partito, del quale ospita la sede nazionale a Roma in uno suo immobile a 18.906,40 euro all’anno, lo ha scelto come capolista nel proporzionale nel collegio di Monza. Proprio accanto alla sua Saronno.

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