Baraccopoli senza acqua, elettricità e servizi igienici, distanti chilometri dai luoghi di lavoro e per la maggior parte senza trasporti pubblici nelle vicinanze, dove una persona su quattro è vittima del caporalato. Siamo in Italia e quella descritta è la condizione in cui vivono molti dei migranti impiegati nell’agricoltura, comprese famiglie e bambini. Più di 10 mila secondo la prima Indagine nazionale sulle condizioni abitative dei migranti occupati nel settore agroalimentare, parte integrante del Piano triennale di contrasto allo sfruttamento lavorativo in agricoltura e al caporalato del ministero del Lavoro che, insieme all’Associazione nazionale dei Comuni italiani (Anci), ha coinvolto 3.851 amministrazioni locali chiedendo loro dati su presenze, insediamenti e servizi presenti sul territorio. E’ l’inedita fotografia di un fenomeno che di inedito ha ben poco, con il 38% degli insediamenti informali, quelli dove le condizioni di vita sono “estremamente precarie”, che esistono da almeno sette anni e il 12,2% che ne ha più di venti. Recente e insufficiente risulta invece la risposta pubblica, compresa quella di un sistema di accoglienza insufficiente anche solo a tutelare chi ne ha diritto.

L’indagine svolta tra ottobre 2021 e gennaio 2022 sui lavoratori migranti dell’agro-alimentare mostra una presenza diffusa in tutta la Penisola sia per gli stagionali, sia per gli stanziali. Ma “non c’è una diretta rispondenza fra le presenze di lavoratori e quelle di insediamenti informali”, precisano Sara Miscioscia, Alessandro Somai e la curatrice del rapporto Monia Giovannetti, responsabile studi e ricerche di Cittalia, la Fondazione dell’Anci sulle politiche sociali per l’accoglienza, l’integrazione e la cittadinanza. La prima regione per numero di Comuni che hanno segnalato la presenza di migranti impiegati nel settore è infatti il Piemonte, che di insediamenti informali ne ha appena due. E così la Lombardia, seconda per presenze stabili e stagionali e priva di insediamenti informali. Che in tre quarti dei casi si trovano in Comuni pugliesi (31,6%), siciliani (21,1%), calabresi (13,2%) e campani (7,9%). Con il 5,3% seguono Piemonte, Lazio e Veneto e con il 2,6% Abruzzo, Liguria, Marche e Toscana. Il 78,8% dei migranti così occupati vive in abitazioni private mentre solo nel 22% dei 608 Comuni interessati dalla loro presenza ci sono “strutture alloggiative temporanee o stabili attivate da soggetti pubblici o privati e/o insediamenti informali”.

Nell’estrema precarietà degli insediamenti informali, “dove sono state stimate oltre 10.000 persone presenti”, non sono presenti servizi essenziali come “acqua potabile, energia elettrica, servizi igienici, ecc.”, si legge nel rapporto. “Molto scarsa (meno del 30% dei casi) risulta essere la presenza nelle vicinanze degli insediamenti informali di servizi pubblici di trasporto“. Un dato particolarmente significativo “soprattutto in considerazione del rischio di ricorrere a caporali e trasporti inadeguati. Sono infatti superiori al 40% gli insediamenti informali che si trovano oltre i 10 chilometri di distanza dai luoghi di lavoro e, fra questi, quasi il 10% è distante oltre 50 km”. Assenti in almeno il 90% degli insediamenti informali anche l’assistenza socio-sanitari, quella sociale, la mediazione culturale, l’orientamento legale, gli interventi di lotta al caporalato e al lavoro nero, la rappresentanza sindacale e gli interventi di integrazione socio-lavorativa. Nel 76,6% dei casi non c’è nulla di tutto questo. Assenza che incentiva il caporalato, presente nel 25,8% dei casi rispetto al 10% degli insediamenti informali, dove proprio la presenza di interventi legati al lavoro fa da deterrente. “E’ comprensibile ipotizzare che la mancanza di servizi possa tradursi frequentemente in mancanza di prospettive”, aggiunge il rapporto. Considerazione ancora più rilevante “se si tiene presente che in oltre un insediamento su cinque ci sono nuclei familiari con minori e che circa il 30% delle persone che vivono negli insediamenti informali sono rifugiati/richiedenti asilo“.

E’ il caso di ricordare che rifugiati e richiedenti asilo hanno pieno diritto ad essere accolti dallo Stato. Ma due dati del rapporto indicano quanto il sistema fatichi a fornire le risposte necessarie. Da un lato sono appena 7 mila i lavoratori agricoli migranti alloggiati in strutture attivate da soggetti pubblici o privati: in “abitazioni riconducibili ad appartamenti della rete SAI/SIPROIMI/SPRAR (44%), in Centri di Accoglienza Straordinaria (CAS) (10,3%) in appartamenti messi a disposizione da realtà/associazioni del Terzo Settore e volontariato (14%)”. Dall’altro, “dalle risposte dei Comuni è emerso che il numero complessivo di spazi presenti sui propri territori destinabili ai migranti che lavorano nell’agro-alimentare supera le mille unità e che potrebbero arrivare ad ospitare complessivamente più di 6mila persone“. Una storia che si ripete, questa dei posti disponibili ma difficili da attivare, perché in Italia l’accoglienza di chi ne ha diritto resta legata a un’impostazione emergenziale dove tre quarti dei migranti finiscono nel sistema straordinario (CAS) in mano alle prefetture e appena 3 su dieci nel sistema ordinario, dove la burocrazia allunga i tempi perché i comuni gestiscono un servizio che non erogano direttamente ma attraverso i fondi del ministero dell’Interno. Eppure le condizioni in cui vivono molti migranti impiegati nell’agricoltura non sono una novità, e quasi un insediamento informale su due ha carattere stabile o addirittura permanente.

“La maggior parte degli insediamenti informali mappati, infatti, è presente sul territorio comunale da parecchi anni: ben 11 insediamenti esistono da più di 20 anni, 7 insediamenti sono presenti da oltre 10 anni e 16 da oltre 7 anni. Si tratta dunque di un fenomeno fortemente cristallizzato all’interno di molte realtà comunali e pur avendo un carattere prevalentemente stabile, nella maggior parte dei casi non sono presenti servizi essenziali”. E non è un caso che le cose vadano così. In quella che viene definita ““la più grande mutazione antropologica” degli ultimi decenni nel Mezzogiorno d’Italia”, i migranti hanno sostituito gli autoctoni “sia sul versante dei lavoratori che su quello dei caporali, portando a un conseguente innalzamento dei margini di profitto“. Ancora: “I trattamenti riservati ai migranti “non si sarebbero mai potuti imporre al bracciante locale. Perché, anche nei paesi pugliesi dove il caporalato classico persiste, caporali e braccianti finiscono per essere parte della stessa comunità” e questo poneva un argine al peggior sfruttamento”. Insomma, è proprio la condizione abitativa di estrema precarietà, la mancanza di servizi e di integrazione nella comunità a garantire di poter trattare i migranti peggio di chiunque altro. “Insediamenti informali e fenomeni di ghettizzazione non sono quindi problematiche esclusivamente abitative e non riguardano solo i migranti ma aggravano le condizioni lavorative, economiche e sociali di interi territori”.

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