Foto di bambini se ne vedono tante, in televisione, sui social media e sulla carta stampata: dai pargoli delle famiglie reali ai piccoli di influencer mostrati in fasce per invogliare all’acquisto di nuovi prodotti, a implumi fenomeni nel campo dello spettacolo, fino ad arrivare alle immagini strazianti di bambini uccisi da uno dei due genitori in lotta, testimoni involontari, a volte scomodi, di violenza di coppia, sacrificati per vendetta, assassinati, nemmeno contesi.

Un tempo si consigliava alle coppie di non separarsi per il bene dei figli: questa mentalità è stata condivisa a lungo dalla maggior parte, poi qualcuno ha suggerito (a ragione) che forse per il bene dei bambini sarebbe stato meglio se le coppie avessero deciso di separarsi, mantenendo un grado di civiltà, anche per evitare una nuova “Guerra dei Roses” sulla pelle degli innocenti. Oggi assistiamo, però, alla sparizione di questa centralità dei bambini, della loro consistente entità, che diventano spesso non un oggetto del contendere, ma sono usati come arma di offesa contro l’altro. Una situazione molto complessa, nella quale si trovano ad agire servizi sociali, parroci, psicologi, giudici, forze dell’ordine e anche insegnanti.

Chi crede ancora nella centralità dei piccoli, nella famiglia, ma anche nella società è il Dottor Flavio Della Croce, che non solo si prende cura della salute di tante famiglie a Ziano Piacentino (a una trentina di chilometri da Piacenza), ma che ha dato vita a un’organizzazione che si chiama Piccoli al centro (per l’appunto) “non solo in senso evangelico” mi dice rifacendosi al noto “sinite parvulos venire ad me” di Gesù, ma perché crede fermamente che una società, per essere equilibrata, debba avere al proprio centro l’attenzione nei confronti dei più piccoli, quelli che spesso non hanno diritto di parola e soprattutto di ascolto, e il cui posizionamento viene deciso alle spicce dagli adulti.

Per non farsi mancare niente il “Dutùr” è diventato da parecchi anni anche psicoterapeuta, e così si occupa non solo di Covid e infarti, ma anche del benessere mentale e psichico di molti cittadini di Ziano (segue la scuola di Erikson). Mi parla così di bambini usati come merce di scambio per offendere, ma anche di bambini che svolgono una costante e attenta azione di “controllori” in famiglia, affinché le cose vadano bene, bambini su cui ricadono le fobie dei genitori, che assistono a violenze e che assorbono le loro litigate, sgridati in modo esagerato, situazioni che con ogni probabilità replicheranno una volta divenuti padri e madri. Bambini che non vogliono allontanarsi, nemmeno per una vacanza, dalla famiglia proprio perché sentono di non voler mancare al loro ruolo di equilibratori, una “genitorialità inversa” in cui è il bambino a proteggere i genitori. Bambini che verso l’esterno si sforzano di dare un’immagine di famiglia in cui tutto funziona al meglio.

Gli chiedo se ha mai dovuto lavorare con i tribunali nei casi di separazione, perché credo che la sua esperienza sarebbe fondamentale visto che spesso in caso di dissidio o violenza fra i genitori si assiste a una spartizione del piccolo, alla sua trasformazione in una specie di multiproprietà con tempi d’uso codificati dagli “esperti”, alcune volte senza ascoltare e capire che cosa un bambino realmente vuole o non vuole fare. Gli chiedo se ha qualche suggerimento, mi dice che vedrebbe bene la nascita di una sorta di “educatore famigliare” – non un assistente sociale o uno psicologo, figure spesso in deficit formativo, ma una figura di forte spessore, in grado di far convergere le famiglie su di una rotta meno burrascosa.

Forse in ogni piccolo paese ma anche nelle grandi città bisognerebbe avere la voglia di costruire qualche cosa attorno ai bambini, mettendoli al centro. Non basteranno le letture di Rodari, Lodi o le utopie di Alexander Neill (quello di Summerhil) e il prosperare di altre “Città dei bambini” per dare vita a una pedagogia condivisa, che riporti al centro la figura di un bambino la cui vita e felicità interessino oltre i suoi consumi, e finisca lo stupido gioco se “è più grave che sia una madre a uccidere il bambino o il padre” (secondo le statistiche fino a che sono piccoli le uccisioni sono numericamente pari, poi sono i padri a uccidere con molto maggiore frequenza). Non c’è una risposta: oltre i femminicidi, la violenza domestica e l’esclusione dei piccoli stanno portando a un aumento di questi delitti, un duro compito per chi si troverà ad applicare la legge in modo giusto e sensato, ma anche per le collettività di vicinato che non vedono, non sentono e soprattutto non parlano: al massimo sparlano.

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