Vito Teti ha recentemente pubblicato con Einaudi la sua terza “vela”, dopo Maledetto Sud (2013), su cui ho già scritto qui, e Fine pasto – Il cibo che verrà (2015): è La restanza (2022), il suo nuovo lavoro. Descrive il sentimento che può definirsi correlativo di ogni partenza, fuga, erranza. Non un elogio dell’inerzia di chi resta, passivamente, per sottrarsi al coraggio di scelte diverse, bensì il tentativo di chiarire la condizione di chi migra in permanenza, “perché per restare, davvero, bisogna camminare, viaggiare negli spazi invisibili del margine”, scrive Teti in apertura, fugando ogni equivoco d’intenti.

In queste pagine si parla di una forma attiva di restanza, non estranea all’inquietudine caratterizzante la condizione dei migranti, soprattutto del passato. Non estranea all’irrequietezza, alla precarietà. Restare, come partire, non è sempre una scelta: spesso è frutto di obbligo o necessità. E non si resta, in molti casi, ad abitare i propri luoghi d’origine per mero attaccamento nostalgico a un fazzoletto di terra popolato da memorie.

La recente, rinnovata attenzione verso un possibile futuro di luoghi spopolati, abbandonati, i tentativi di costruire progettualità inedite per l’Italia interna, sono “molliche che riportano a casa”, aspetti che Teti passa sotto una lente attenta. Molliche di pane rimasto, prezioso come gli scarti che in passato costituivano prezioso supporto al soddisfacimento del fabbisogno alimentare, in tempi ormai dimenticati di obbligata frugalità. Fino ai nostri tempi, in cui “l’assai è come il niente”. Restare non è necessariamente una scelta marginale, antimoderna. E non deve dare adito a retrotopie che vagheggiano passati mitici di purezze mai esistite, di sacralità da recuperare. Al contrario, secondo Teti, occorre superare il pregiudizio ideologico delle aree interne come improduttive e arretrate, destinate allo spopolamento. “È il caso di menzionare come permangano, soprattutto in ambito giornalistico, posizioni antimeridionaliste e “antipaese” di matrice lombrosiana, o altre che tentano di rivitalizzare teorie storicamente deboli – e che si sperava fossero definitivamente superate – come quella del familismo amorale di Edward Banfield”.

La restanza non deve sottendere una restaurazione di mondi perduti, dunque, ma affermare il diritto alla memoria e all’elaborazione di nuovi modelli di sviluppo. Che ridisegnino i modi di organizzare spazi, economie, relazioni, abitare. Il vuoto creatosi è opportunità di elaborare nuovi modelli, per “rilegare economia e società”. Un villaggio turistico non è una nuova comunità; la ristrutturazione degli immobili non è condizione sufficiente al rilancio di un paese. Occorrono servizi di cittadinanza, come premesse molecolari del ripopolamento. Occorre elaborare una “dialettica della continuità”, che coinvolga rimasti e partiti. Restanza può essere consapevole opposizione al vuoto, ripartenza dal margine. Ma necessita di sguardi realistici e non edulcorati sulla realtà circostante, presupposti a una condizione per nulla pacificata, inquieta, polemica col contesto, non romanticizzata. È un concetto – in origine – prevalentemente tematizzato al sud, per via dell’opposizione alla concezione urbanocentrica, ma coinvolge ogni piccolo borgo, puntando al riequilibrio.

“Una via d’uscita possibile ci chiede di immaginare l’inimmaginabile, di prevedere l’imprevedibile”. La scelta della restanza presuppone il coraggio di porre domande scomode al proprio contesto, di sollevare obiezioni, di essere inopportuni. Di essere irritanti “migranti del pensiero”, persino in esilio, nel luogo in cui si vive. Scrive Teti, a proposito, che “Non esiste sradicamento più radicale di chi vive esiliato in patria e combatte una lotta quotidiana, fatta di piccoli gesti per salvaguardare e proteggere i luoghi che potrebbero essergli sottratti non da chi arriva da fuori ma da chi vi abita dentro come un’anima morta”.

Domani sera (29 giugno 2022) Vito Teti presenterà La restanza a Martano, nella Grecia salentina, alle ore 21, presso i Giardini Ducali.

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