Dicono di volere la stessa cosa, ma riescono a litigare prima ancora di iniziare a tessere la tela: coincidenti sull’obiettivo del futuro, lontanissimi nella realtà. Un’era Draghi dopo Draghi. I “draghetti” – ebbe a dire Ettore Rosato – che devono stare insieme. Insomma, una “cosa centrista” disboscata dai cespugli estremi che governi dopo il 2023. Il copyright dell’ultima versione, area Draghi, è di Matteo Renzi. Ma è bastata una sua risposta sul tema al Corriere della Sera per scatenare la reazione di chi quella soluzione come punto di caduta post elezioni politiche la va ripetendo da tempo, Carlo Calenda. E i “puntini sulle i” messi dal leader di Azione hanno provocato il putiferio di reazioni tra i maggiorenti renziani, a iniziare da Francesco Bonifazi e Ivan Scalfarotto. Una rissa social, tanto per cambiare, che fa sembrare l’area Draghi – federazione di centro a geometria variabile di settimana in settimana – evocata da Renzi più una bolla che uno spazio da riempire, come auspica l’ex presidente del Consiglio.

“Non si tratta di ragionare di nomi e cognomi ma di politica: c’è uno spazio che può salvare il Paese. È l’area Draghi, oggi, in Italia, ed è l’area Macron in Francia. È uno spazio che esiste”, ha detto al quotidiano di via Solferino. Quindi le parole che hanno scatenato Calenda: “Non dare a questo spazio una casa e un tetto per mere ragioni di egocentrismo personale sarebbe folle e da irresponsabili. I prossimi mesi mostreranno chi è in grado di fare politica e chi invece vive di inspiegabili risentimenti, anche in questo centro riformista. Noi ci siamo con umiltà e determinazione”. Dietro quell’espressione – egocentrismo personale – Calenda deve averci visto sé stesso, perché via social è subito partito alla carica: “Da tempo, insieme a Più Europa e liste civiche, stiamo lavorando per questo. Ma va chiarita la linea di Italia Viva (un no chiaro a Pd/5S), abbandonati opportunismi elettorali locali, e devi decidere se vuoi fare politica o business. Su queste basi aperti a discutere quando vuoi”. Per il leader di Azione, comunque, a un rinnovato progetto di larghe intese si può lavorare dopo il voto, coinvolgendo Pd, Forza Italia e sinistra. Non prima. Con buona pace dell’area Draghi a cui sarebbe “folle non dare un tetto”, per dirla con Renzi.

Finita lì? Macché. Il commento di Calenda è stato benzina per i fedelissimi del leader di Iv, pronti ad appiccare l’incendio. “Anche oggi Carlo Calenda attacca Renzi evocando conflitti inesistenti tra business e politica. L’uomo cresciuto in Confindustria non sa che cosa sia la politica. Ma evidentemente non ha ancora capito che cosa sia davvero il business. Carlo i nemici non siamo noi: rilassati”, ha scritto Francesco Bonifazi con riferimento alle parole dell’eurodeputato sulle attività di Renzi in Arabia Saudita. E poi Ivan Scalfarotto: “Carlo, il problema è che una possibile alleanza nemmeno si concepisce se uno dei possibili alleati non fa altro che attaccare l’altro (peraltro a senso unico). Qua il tema è il destino dell’Italia a partire dal 2023 e tu ti preoccupi di cosa fa Renzi nel tempo libero? Eddai”. La lista di renziani si allargata di ora in ora, fino alla controreplica di Calenda: “Avete la sindrome dell’attacco. Ho spiegato qual è la nostra linea su una possibile alleanza. Possiamo? Il punto è che qualsiasi cosa non sia un’ode al capo carismatico diventa un attacco. Come potete pensare di collaborare con qualsiasi cosa che non sia uno specchio?”.

L’intervista di Renzi e il successivo battibecco sono l’ultimo capitolo del tema del “Draghi dopo Draghi” che tiene banco da mesi. Con rifiuti, aperture, proposte, silenzi. Un dibattito che sembrava sepolto da qualche mese. Enrico Letta ha spergiurato che questa è l’ultima volta: “Il governo delle larghe intese termina con questo Parlamento – ha detto negli scorsi giorni – dopo le prossime elezioni politiche saranno i cittadini a decidere la maggioranza e noi puntiamo ad avere la maggioranza di centrosinistra che posa governare il Paese secondo un progetto riformatore e progressista”. Linea simile a quella del leader del M5s Giuseppe Conte: “Non metto in dubbio che ci siano alcuni protagonisti della vita politica che sperano che ci sia confusione in modo che siano sempre al centro delle danze – ha detto – Noi non possiamo augurarci un governo di unità nazionale dopo le elezioni”. Controla perpetuazione del governissimo è anche Matteo Salvini, il segretario della Lega: “Il governo di responsabilità nazionale non è una possibilità nel 2023 – garantisce – Altri governi con il Pd, passata l’epidemia e finita la guerra, non ce ne saranno più”.

Si tratta di “balle”, aveva assicurato proprio Calenda, il più convinto della missione: “Dicevano la stessa cosa prima di questa legislatura, sono fesserie per militarizzare l’elettorato – aveva sostenuto a Sky TG24 Live – Non vedo altre soluzioni. La sinistra non è in grado di governare e la destra pure. Il bipopulismo non ha possibilità di governare, quindi l’unica soluzione è che la nostra area di centro abbia un buon risultato e costringa gli europeisti a staccarsi” dai loro schieramenti “per costruire una larga coalizione”. E Renzi? Ha corretto un po’ il tiro nel giro di qualche giorno. Venerdì aveva detto: “Nel 2023 ci sono le elezioni, voi dovete pretendere che chi vince le elezioni governi. In Italia non è così: chi vince le elezioni non si sa, perché subito dopo si apre il dibattito”. Sabato, il discorso si è fatto diverso: quella di una Draghi che succede a Draghi, ha risposto in un’intervista al Giornale di Vicenza, “non è un’ipotesi da escludere, ma manca un anno e parlarne ora è tempo perso: le evoluzioni della politica sono troppo rapide. Ora concentriamoci sulle cose da fare, poi da ottobre-novembre inizieremo ad entrare nel vivo e vedremo chi avrà più filo da tessere”.

Quindi l’apertura ancora più esplicita al Corriere della Sera, almeno per quel rimette insieme l’area riformista, coincidente con i “draghetti” evocati già a novembre dal coordinatore di Iv Rosato. Il baillame di dichiarazioni e posizionamenti avviene nel silenzio perfetto del diretto interessato, il presidente del Consiglio, che peraltro prima di arrivare al 2023 ha ben altri problemi da risolvere, in primis il Pnrr, e in ogni caso aveva già seppellito ogni ipotesi a febbraio: “Se escludo che nel 2023 io possa essere federatore di una coalizione di centro? Lo escludo – aveva detto – Ho visto che tanti politici mi candidano a tanti posti in giro per il mondo mostrando una sollecitudine straordinaria, ma vorrei rassicurarli che se decidessi per caso di lavorare dopo quest’esperienza un lavoro lo trovo da solo…”. Nella ricerca di una ricomposizione del centro, il primo a sfilarsi dalle risse è stato già da tempo il candidato numero uno a essere il federatore.

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