Lo scontro tra Russia e Ucraina, e tutti i suoi alleati, a livello accademico si è trasformato anche nello scontro tra l’approccio cosiddetto realista e quello legato alla contrapposizione tra quelli che rimangono, seppur in un mondo più orientato al multipolarismo rispetto al passato, due blocchi contrapposti: quello che fa capo a Washington e l’altro che invece ha come riferimento Mosca. Dialogare con Putin, sforzarsi di capire le sue richieste, esigenze di sicurezza, prospettive future pur riconoscendo le sue responsabilità nell’accendere questo nuovo campo di battaglia, oppure soffermarsi su quest’ultimo aspetto cercando di arginare il più possibile la smania di conquista, militare e non solo, del presidente russo, fino a pensare di costringerlo a una resa militare che ne indebolisca la leadership? Sono queste le domande alle quale hanno cercato di rispondere illustri accademici, diplomatici e politici nel corso di un dibattito, che ben si distacca da quelli ricchi di slogan e attacchi personali ai quali si sta assistendo nel corso di questo conflitto, all’interno dei Munk Debate a Toronto e tradotto dal Foglio.

Tra i presenti c’era John Mearsheimer, docente dell’università di Chicago e massimo esponente del cosiddetto realismo politico, che nel suo intervento cerca di tracciare una linea di separazione tra ciò che è accaduto, ossia il rovesciamento del presidente Viktor Yanukovich, l’invasione della Crimea e il sostegno al Donbass, fino all’ultima offensiva russa in Ucraina, per concentrarci sulle soluzioni al conflitto. Soluzioni che, nel pensiero del politologo, non possono coincidere con le posizioni statunitensi esplicitate dal capo del Pentagono, Lloyd Austin, che puntano a “indebolire la Russia affinché non possa più nuocere agli altri Paesi in futuro”. “È importante iniziare a riconoscere gli interessi della Russia – esordisce Mearsheimer nel suo intervento – Non stiamo discutendo su chi l’abbia iniziata, su chi debba essere incolpato, ciò di cui stiamo discutendo non è se Vladimir Putin sia un buono o un cattivo, la questione è come porre fine a questa crisi“. E per farlo, continua, dobbiamo assolutamente evitare che “questa guerra, che ora è tra Russia e Ucraina, si trasformi in una guerra tra Russia e Stati Uniti, in una guerra tra grandi potenze. Sappiamo bene che quando le guerre diventano lunghe tendono a intensificarsi e l’ultima cosa che vogliamo è una guerra tra gli Stati Uniti e la Russia. E il motivo è che in questo momento è sul tavolo la minaccia di una guerra nucleare. Molti di voi potrebbero pensare che questa non sia una possibilità seria, ma sarebbe un errore fondamentale. L’obiettivo numero uno dell’America in questa guerra è infliggere una sconfitta decisiva alla Russia e il numero due è mettere in ginocchio l’economia russa con sanzioni economiche. Il generale Austin, che è segretario alla Difesa, dice di voler estromettere la Russia dai ranghi delle grandi potenze. Questo è un altro modo per dire che stiamo presentando alla Russia una minaccia esistenziale. Ora, che questo significhi che la Russia userà delle armi nucleari, nessuno può dirlo con certezza, ma c’è una seria possibilità. Avril Haines, direttore dell’intelligence nazionale, ha detto che uno dei due scenari in cui la Russia utilizzerà le armi nucleari è se dovesse perdere in Ucraina. Bene, il nostro obiettivo di base è sconfiggere la Russia in Ucraina, quindi abbiamo un paradosso molto perverso: quanti più risultati raggiungono gli Stati Uniti sul campo di battaglia con gli ucraini che combattono, tanto più è probabile che la Russia si rivolga alle armi nucleari e che si finisca in una guerra termonucleare generale”.

Il problema, secondo l’analista, è che questa non è soltanto la guerra di Putin, ma “una crisi che riguarda gli sforzi dell’occidente di trasformare l’ucraina in un baluardo occidentale al confine con la Russia. Si tratta di una strategia su tre fronti: portare l’Ucraina nell’Unione europea, trasformarla in una democrazia liberale filo-occidentale e, terzo e più importante, portare l’Ucraina nella Nato. Se si ascoltano i discorsi di Putin e si leggono i suoi saggi, ha chiarito in modo inequivocabile che è questo il problema principale e per risolvere questo problema la soluzione è che l’Ucraina diventi un Paese neutrale. L’Ucraina non può diventare un baluardo occidentale ai confini della Russia: potrebbe non piacervi questo esito e lo capisco perfettamente, ma se siete interessati a evitare che l’Ucraina venga completamente distrutta e a evitare una guerra nucleare, dovreste essere a favore di questa mozione”.

Una posizione contestata duramente da Michael Mcfaul, ex ambasciatore americano in Russia e consigliere speciale dell’ex presidente Obama, e Radoslaw Sikorski, ex ministro degli Esteri della Polonia. Il primo, che nel corso del suo mandato è stato uno degli esperti che ha contribuito alla nascita della poi fallita strategia “reset” voluta dalla Casa Bianca per riavviare colloqui costruttivi e una partnership solida con Mosca, risponde nel merito a Mearsheimer: “Gli Stati Uniti, la Nato e l’Occidente hanno riconosciuto gli interessi della Russia in materia di sicurezza per tre decenni, ma ciò non ha impedito a Putin di invadere l’Ucraina, quindi l’idea secondo cui la Nato abbia in qualche modo marciato e marciato contro la Russia e infine Putin si sia sentito in un angolo e abbia invaso l’Ucraina fa selezioni pretestuose di 30 anni di storia“, esordisce. E spiega: “Fino a quando Putin non ha invaso l’Ucraina nel 2014, noi e la Nato stavamo effettivamente cooperando sugli interessi di sicurezza della Russia come da loro definito in Afghanistan, nel Trattato New Start, nell’adesione alla Wto, anche in merito alla Georgia e all’Ucraina. Questi paesi volevano unirsi alla Nato, ma la loro adesione è stata congelata dal 2008. La Nato non è stata ampliata, sono passati vent’anni dall’ultimo big bang della Nato e quindi bisogna chiedersi che cosa è cambiato dopo il 2002, che cosa è cambiato dopo il vertice di Bucarest del 2008, quando credo che le cose fossero sostanzialmente congelate. Ho lavorato per il governo per cinque anni e la questione dell’espansione della Nato non è stata sollevata una sola volta, quindi ciò che è cambiato non è stata l’espansione della Nato, ma l’espansione della democrazia. Putin ha invaso l’Ucraina nel 2014 a causa della rivoluzione democratica, ecco cosa è cambiato, non la politica della Nato e non la nostra attenzione alla sicurezza russa”.

Su questo punto si sofferma anche Sikorski: “Putin non sta solo reagendo a ciò che facciamo noi, ma lui stesso ha un’agenda, ha iniziato come un riformatore e ha finito per essere uno zar russo tradizionale che sta portando il proprio Paese indietro. È stata sua la decisione di fermare la modernizzazione della Russia e di cercare di riunire le ex repubbliche dell’Unione Sovietica. Ha già truppe in Armenia, in Moldavia, ha fatto un’incursione in Kazakistan, è in Bielorussia, è in Georgia. Sta esaurendo i Paesi da invadere”. E contesta poi la teoria realista spiegando che secondo questa “la Russia non può sopportare altri membri della Nato ai propri confini. E indovinate un po’? Grazie all’aggressione di Putin all’Ucraina due nuovi Paesi vogliono entrare nella Nato: Finlandia e Svezia. Se la Finlandia dovesse entrare nella Nato, la Russia avrà 1.340 chilometri in più di confine con la Nato, il che sicuramente influirà sulla sua sicurezza, dovrà collocare nuove truppe lungo il confine finlandese. Se la Svezia entrerà nella Nato il mar Baltico diventerà quasi un mare della Nato, il che influirà sulla sicurezza della Russia. Secondo la teoria realista se questi Paesi entrassero nella Nato la Russia dovrà invaderli, giusto? Vi dico una cosa: credo che siano i finlandesi e gli svedesi a essere realisti, perché penso che se si candidano e si uniscono alla Nato ora la Russia non li invaderà, ma la Nato ne uscirà rafforzata. Quindi, cari colleghi, penso che sì, tutti riconosciamo che la Russia abbia interessi di sicurezza, ma ciò che ci vorrebbe per porre fine a questo pericolosissimo conflitto è che la Russia riconosca che anche altri Paesi, compresi quelli più piccoli e in particolare l’Ucraina, hanno interessi di sicurezza, il diritto di esistere, il diritto di essere una democrazia, il diritto di integrarsi con l’Occidente se lo desiderano.”

Mcfaul replica anche alle affermazioni sulla necessità di capire gli interessi della Russia: “Il presidente definisce gli interessi di sicurezza della Russia in termini imperiali, in termini anti democratici. Ritiene che sia nell’interesse nazionale della Russia annettere la Crimea e che noi dovremmo assecondarlo, ritiene che sia nell’interesse nazionale della Russia dichiarare le regioni del Donbass indipendenti per poi annetterle e che noi dovremmo assecondarlo, ritiene che sia nell’interesse nazionale della Russia massacrare i civili a Mariupol e che noi dovremmo assecondarlo. Se il Donbass non è sufficiente e vuole avere tutta l’Ucraina, se gli permettete di definire i territori a suo piacimento, vi troverete su una china molto scivolosa. A proposito dell’appeasement: se gli diamo quello che vuole, tutto andrà bene. L’appeasement per sé stesso contraddice i dettami del realismo offensivo di Mearsheimer e quindi è una strategia fantasiosa e pericolosa. In breve: l’appeasement rischia di rendere gli Stati rivali più pericolosi, non meno pericolosi”.

La mozione presentata da Mearsheimer sulla necessità di riconoscere gli interessi russi in materia di sicurezza è sostenuta allo stesso modo da Stephen Walt, docente di Politica internazionale presso la John Kennedy School of Government dell’università di Harvard, che presenta un’analisi storica secondo la quale le potenze che si sentono minacciate sono portate per natura ad agire in modo brutale e pericoloso: “Prendiamo la Cina nel 1950: era un paese molto debole in quel momento, ma quando le forze americane in Corea si avvicinarono al suo confine, Mao Zedong ordinò al suo esercito di attraversare il fiume Yalu e di attaccarle. Noi americani non avevamo intenzione di invadere la Cina, ma Mao non lo sapeva e pensava che la sopravvivenza del suo regime fosse a rischio. La guerra di Corea durò altri due anni e si persero altre migliaia di vite per combattere oltreoceano: 58mila di loro non tornarono indietro. Abbiamo usato il napalm e l’agente arancio e sganciato più di 6 milioni di tonnellate di munizioni. Quando neppure questo ha funzionato, abbiamo invaso la Cambogia, aiutando involontariamente i khmer rossi a prendere il potere. Milioni di persone sono morte perché i leader americani credevano che perdere il Vietnam del sud avrebbe potuto minare la nostra sicurezza e il Vietnam non era sul nostro confine, ma a quasi 13mila chilometri dagli Stati Uniti. Negli anni Ottanta in Nicaragua una rivolta popolare ribaltò un dittatore pro-americano, proprio come la rivolta Euromaidan ucraina ha rovesciato il presidente ucraino Victor Yanukovich. In risposta organizzammo e armammo un esercito di ribelli, i Contras, proprio come la Russia ha appoggiato i movimenti separatisti in Ucraina. Il Nicaragua era un paese povero abitato da quattro milioni di persone ma l’amministrazione Reagan lo considerò una minaccia molto seria. In quella guerra sono morti 30mila nicaraguensi: in percentuale, sarebbe come se il Canada perdesse 300mila persone o gli Stati Uniti ne perdessero 2,5 milioni. Infine, non dimentichiamo che gli Stati Uniti hanno invaso l’Iraq nel 2003 perché l’amministrazione Bush pensava che Saddam Hussein fosse un pericolo mortale. Quella guerra, che il professor Mcfaul ha appoggiato e John e io abbiamo contrastato, ha ucciso migliaia di iracheni, ha danneggiato enormemente il Paese e ha portato alla nascita dello Stato Islamico. L’amministrazione Bush ha scelto di lanciare una guerra illegale perché si sentiva minacciata e proprio come Putin il presidente Bush pensava che la guerra sarebbe stata facile. Nulla di tutto questo oggi giustifica quel che la Russia sta facendo, neanche lontanamente, ma il punto che voglio sottolineare è che quando gli Stati potenti pensano che la loro sicurezza sia minacciata si impegnano a fondo per cercare di affrontare il pericolo, fanno grandi danni e se si trovano di fronte a un ostacolo o a una battuta d’arresto è più probabile che raddoppino i loro sforzi piuttosto che invertire la rotta e fare un passo indietro. La lezione è che minacciare la sicurezza di una grande potenza è un affare molto rischioso, specialmente nell’era nucleare”.

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