“Non è baldanzoso, non è irruente, guida con dolcezza”. Quando l’allora monsignor Pietro Parolin fu nominato da Papa Francesco suo segretario di Stato, il 31 agosto 2013, ilfattoquotidiano.it chiese un commento a colui che era stato il suo diretto superiore nel principale dicastero della Curia romana, il cardinale Giovanni Lajolo. Nel 2003 il futuro porporato era stato nominato da san Giovanni Paolo II segretario per i rapporti con gli Stati, ovvero ministro degli Esteri del Papa. Come suo vice, trovò proprio l’allora monsignor Parolin che, appena un anno prima, era stato scelto dal Papa polacco come sottosegretario per i rapporti con gli Stati. Un rapporto di collaborazione, quello tra Lajolo e Parolin, che durò tre anni, fino al 2006 quando Benedetto XVI promosse il futuro cardinale presidente del Governatorato dello Stato della Città del Vaticano. Parolin, invece, rimase in quel ruolo in Segreteria di Stato ancora per tre anni, fino al 2009 quando, sempre Ratzinger, lo nominò nunzio in Venezuela, ordinandolo vescovo personalmente.

“Monsignor Parolin, allora sottosegretario, – affermava il cardinale Lajolo – mi ha introdotto con grande umanità e gentilezza nel mio nuovo ufficio di segretario per i rapporti con gli Stati. Aveva già una visione universale della Chiesa e conosceva molto bene tutti i problemi diplomatici della Santa Sede. Per lui ho affetto perché è stato così buono con me. Non posso che lodarne accortezza e sapienza. Tante volte io prendevo decisioni un po’ irruenti e lui diceva subito: ‘Attento! È meglio fare così’. Era sempre perfetto. Forse è un po’ timido, ma questo è anche bello”. Una figura, quella del cardinale Parolin, che Francesco ha voluto recentemente lodare per l’intenso lavoro svolto al suo fianco, spesso con enorme discrezione, anche nell’offerta della mediazione del Vaticano per la fine della guerra in Ucraina: “Davvero un grande diplomatico, nella tradizione di Agostino Casaroli, sa muoversi in quel mondo, io confido molto in lui e mi affido”, ha detto al Corriere della Sera.

Il cardinale Parolin, figlio della gloriosa scuola diplomatica vaticana degli ultimi decenni, quella che ha supportato in modo efficace i pontificati di Roncalli, Montini e Wojtyla, ha affiancato fin da subito Bergoglio nel governo della Chiesa universale. Una nomina, quella del segretario di Stato, chiesta con insistenza dalla larga maggioranza del Collegio cardinalizio che, nel conclave del 2013, aveva eletto Bergoglio a scapito dell’allora arcivescovo di Milano, il ciellino Angelo Scola, che viaggiava con il favore mediatico e che, nelle prime due votazioni nella Cappella Sistina, aveva incassato la maggioranza dei consensi. Un segretario di Stato che mandasse rapidamente in pensione il salesiano Tarcisio Bertone, reo, secondo i cardinali elettori, di non aver saputo gestire le maggiori e frequenti crisi del pontificato ratzingeriano, conclusosi con l’infausta, secondo i porporati, decisione delle dimissioni di Benedetto XVI.

L’indicazione consegnata nelle mani nel nuovo Papa era molto chiara: richiamare un uomo della diplomazia vaticana e non un pastore, come era Bertone nominato segretario di Stato mentre era arcivescovo di Genova. Da lì, la decisione, accelerata dal cardinale arcivescovo di New York, Timothy Michael Dolan, di un radicale cambio di metodo nella scelta del principale collaboratore del vescovo di Roma. La risposta di Bergoglio non si fece attendere: Parolin, classe 1955, fu richiamato dopo appena quattro anni dal Venezuela a Roma. Sulla sua scrivania, prima di diventare nunzio apostolico, erano transitati dossier importanti, come la lettera di Benedetto XVI ai cattolici cinesi datata 2007. Dossier che, da segretario di Stato, Parolin ha ripreso in mano siglando, in totale sintonia con Francesco, l’accordo provvisorio tra la Santa Sede e la Repubblica Popolare Cinese sulla nomina dei vescovi. Accordo biennale, già rinnovato una volta nonostante le polemiche, più interne che esterne al mondo cattolico, indirizzate maggiormente proprio contro Parolin.

È indiscussa la fedeltà del segretario di Stato al Papa. Così come in questi nove anni di stretta collaborazione agli osservatori più attenti non è sfuggita la grande capacità di Parolin di imporre, sempre con moderazione e con argomentazioni convincenti, la sua visione della riforma della Curia romana, in particolare del ruolo della Segreteria di Stato. Visione che è stata poi recepita nella recente costituzione apostolica Praedicate Evangelium che entrerà in vigore il 5 giugno 2022. Una riforma che era nata, prima dell’arrivo di Parolin a Roma e del suo conseguente ingresso nel Consiglio di cardinali che l’ha elaborata, per mettere nell’angolo la Segreteria di Stato che, invece, ne è uscita rafforzata grazie alla visione del cardinale.

Proprio la diversità di caratteri tra il Papa e Parolin, espansivo il primo, introverso il secondo, ha consentito in questi nove anni un efficace lavoro di squadra. Francesco si fida ciecamente del suo segretario di Stato e questo non è assolutamente scontato per un Pontefice che, come si è visto per esempio in campo mediatico, ama dribblare i collaboratori per gestire direttamente le pratiche alle quali tiene di più. Con Parolin, però, Bergoglio è sempre stato consapevole di non poter fare a meno delle sue capacità e delle sue conoscenze sui tempi e sui linguaggi della diplomazia vaticana. Non è un caso se il segretario di Stato si è spesso rifatto a una celebre massima del cardinale Casaroli: “Il martirio della pazienza”. C’è chi da sempre in Curia sostiene che Parolin incarni perfettamente quella espressione e che, anche in questi mesi di guerra in Ucraina, i suoi contatti con il Cremlino, in particolare con il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, sempre a nome del Papa, siano stati ispirati proprio da quella massima.

Una collaborazione sicuramente efficace e vincente, quella tra Francesco e Parolin, come ha riconosciuto lo stesso Pontefice, che ha le sue fondamenta alla vigilia della fumata bianca, quando l’allora nunzio in Venezuela guardò positivamente all’elezione di un cardinale latinoamericano come vescovo di Roma. “L’America latina – dichiarò Parolin – ha tutti i titoli per poter esprimere un Papa. Non dimentichiamoci che è il continente dove vive la maggioranza relativa dei cattolici del mondo. Si tratta di una Chiesa viva, presente nella società, cosciente della sua vocazione di discepola-missionaria. Credo che l’elezione di un Papa latinoamericano potrà imprimere un impulso forte all’evangelizzazione del nostro tempo e al contributo che la Chiesa è chiamata a dare alla soluzione dei grandi problemi attuali, come la povertà, la giustizia sociale, la convivenza pacifica”. Parole che in nove anni si sono concretizzate.

Twitter: @FrancescoGrana

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