Quando cominciò a diffondersi la formula “all you can eat” nei ristoranti a basso prezzo, a parecchi sembrò che fosse la tappa finale del processo di industrializzazione non solo del cibo, ma della stessa attività di alimentazione umana. Il cibo smetteva di avere un valore intrinseco, l’offerta della ristorazione a basso costo proponeva l’ingozzo fino allo strozzo, svincolava il contenuto dal pasto dal suo prezzo e dalla sua quantità. Potevi ingurgitare fino a scoppiare, prendere assaggiare e lasciare nel piatto per poi buttare, costava sempre uguale, che bello.

Quasi in parallelo la rivoluzione della telefonia mobile generò una formula analoga, “all you can speak”: fine dello scatto alla risposta, delle conversazioni tutte d’un fiato per risparmiare sul tempo, inizio di una nuova era nella quale non solo la connessione è diventata continua, ma anche la libertà di chiacchiera si è trasformata in un compulsivo blaterare di cose già dimenticate prima della fine della conversazione. Corridoi pieni di nulla comunicativo intasati da un fluire di suoni utili a testimoniare la noia e l’inconsistenza della vita quotidiana trasformata in disturbo per chi è costretto a fingere di ascoltare. Ci siamo trasformati in soggetti dalla cuffia inserita, o dallo smartphone ad angolo retto rispetto al viso dentro al quale sibilare il bla bla esistenziale senza alcuna cura per chi è attorno a noi e, se non sta facendo la stessa cosa, subisce il fastidio.

Alla bulimia alimentare si contrapponeva (e ancora lo fa) la cultura e la pratica del cibo di qualità, consumato con una certa calma in piccole porzioni, spesso più costose del dovuto: è anche questo un modo di selezionare, di scomporre la società dei consumatori in tante piccole classi che si agglutinano sulla base di valori “molli” come il cibo. Insomma, roba per radical chic, il popolo non smette di abbuffarsi nemmeno quando il diabete e l’obesità cominciano a farsi sentire.

Alla bulimia delle parole in tanti cercano di porre rimedio rispolverando le email (“mandami un’email che non ho da prendere appunti”; “non sento niente e preferisco leggere quello che mi scrivi”, e così via), ma soprattutto ricorrendo massicciamente alla messaggistica. Con Whatsapp ci si scambia di tutto, comprese le frasi distorte dal correttore automatico e dall’imprecisione dei nostri polpastrelli che finisce per produrre sintesi a volte esilaranti. Ci si scambiano anche appuntamenti per conversazioni telefoniche che, vista la durata dilatata, finiscono per diventare veri e proprio impegni. Come se le nostre relazioni sociali e affettive fossero diventate un lavoro.

Dall’inizio della pandemia – prima il Covid, la sua diffusione, i morti, le bare, gli eroi, le denunce, gli allarmi, le parate, le statistiche, gli esperti, i controesperti, ora l’invasione dell’Ucraina – è esploso un fenomeno che era nell’aria. Si può chiamare ”all you can talk” perché stimola e soddisfa la stessa bulimia esistenziale che il cibo e la (video) telefonata non soddisfano più da soli. Giornali, televisione, radio, informazione online, tutti pieni di chiacchiere e immagini (spesso sempre le stesse che sembrano tante per l’effetto caleidoscopio che deriva del goderne su ogni canale e in ogni trasmissione) che, invece che raccontare una indicibile tragedia, si fanno spettacolo truculento accompagnato dai commenti di opinionisti che sembrano prefiche, piangendo a comando con la stessa perizia con cui combattono la guerra dal salotto di casa loro o dalla poltrona del salotto televisivo che li accoglie.

I numeri? Le statistiche? La geografia? La varietà interpretativa? Il senso critico? Tutta roba sopravvalutata, non funzionale alla soddisfazione della bulimia da talk che richiede sempre lo stesso schema: una voce dissonante che dà la stura al conformismo di tutti gli altri, soddisfacendo la loro ansia di dimostrare la validità dell’ideologia con cui piegano la realtà alla volontà dei loro referenti, facilmente individuabili grazie alla rete.

Così un po’ tutta l’informazione ha preso a mentaneggiare, dilatando notizie e corrispondenza ben oltre il tollerabile, trasformando ancora di più il piccolo mondo antico di stampa e tivù italiane in un pollaio autoreferenziale da cui è salutare allontanarsi in fretta. Meglio non entrare del tutto nel magico mondo virtuale delle lobby italiane, meglio mantenere un minimo contatto con la realtà per essere pronti per quando finirà per imporsi. Come cittadini siamo indifesi – il canone Rai lo paghiamo a prescindere -, come consumatori un po’ meno. Anche noi infatti abbiamo a disposizione delle sanzioni: spegnere la tivù ogni volta che ricominciano o, se proprio non si riesce, cambiare canale; smettere di comprare il Giornale Unico; approfittare del “silenziamento” del Covid per vedere gli amici, fare qualche bella gita con loro; portare i bimbi al parco per giocare a palla; contemplare la fioritura riservandoci di passare a un’altra se proprio non ci piace quella… e chissà quante altre cose ancora.

Siamo tanti, sosteniamo l’economia del paese perché paghiamo perfino le tasse, con le nostre sanzioni personalizzate possiamo fare davvero molti danni. Non ai poveracci, come succede di solito, ma a chi tratta questo paese come se fosse roba sua.

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