E se la rimozione collettiva dell’asserto costituzionale che “L’Italia ripudia la guerra […] come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali” costituisse un effetto collaterale della pandemia?

Ricordiamo tutti come la pandemia abbia scatenato una discussione dai toni molto aspri intorno alle sue politiche di contrasto, in particolare sulla vaccinazione di massa in termini di rischio-beneficio e soprattutto sui divieti impartiti ai non-aderenti, tanto da rimettere al centro il tema della libertà nel rapporto tra Stato e individuo. Un periodo in cui si sono alzati i toni di parti separate da una gigantesca barricata virtuale. A prescindere da ogni schieramento di maggioranza e minoranza, il linguaggio ha perso via via tutta la ricchezza delle sfumature per scadere nella più cruda dicotomia bellica del “con me o contro di me”. Temo che questa deriva, già anticipata dall’ossessione mediatica di semplificare ogni complessità, abbia lasciato una ferita profonda.

Nonostante nessuno neghi l’evidenza di un invasore (la Russia) e di un invaso (l’Ucraina) e prenda automaticamente le parti della vittima, non paiono consentite sfumature, non tanto verso la stigmatizzazione del colpevole, quanto verso la perentorietà delle soluzioni prospettate. Questa mi pare un’assoluta novità, soprattutto pensando a quante situazioni analoghe a quella ucraina si siano presentate nella Storia, pur senza dar corso a tanta radicalità divisiva. Sembra non abbia importanza quante saranno le vittime che alla fine provocherà questa guerra pur mantenendo (si spera) un profilo convenzionale, quanta la distruzione del territorio, quanti i profughi e quanto il dolore per tutto questo. E senza considerare l’impatto su di una transizione ecologica ormai gettata alle ortiche, sulla perdita di derrate alimentari garantite dal “granaio d’Europa” che come sempre peseranno sui popoli più svantaggiati, allargando a dismisura le disuguaglianze sociali nel mondo.

Tutto ciò significa un danno incommensurabile per la salute e per l’ambiente a breve e lungo termine che rischia di coprire quello pandemico che tanto ha accalorato le nostre discussioni.

Federico Rampini, noto e raffinato analista, nella presentazione televisiva del suo nuovo libro non ha esitato a definire i pacifisti “collaborazionisti”. E’ proprio un brutto rimando ad una delle pagine più tristi della nostra storia recente. Non era necessario ricorrere a questo aggettivo per prendere le distanze da una posizione, quella di non fornire armi all’Ucraina, che si può legittimamente non condividere, come proprio in analoga occasione ha fatto il filosofo Vito Mancuso con grande garbo ed eleganza intellettuale. Ma niente da fare, lo schema binario mutuato dall’informatica ha pervaso quasi l’intero pensiero.

Se soltanto si esprime perplessità sul fornire armi all’Ucraina, se si rimane sconvolti dall’insistente richiesta di ottenere una no-fly-zone che aprirebbe ad una guerra nucleare, si è immediatamente rigettati dalla parte dell’invasore. In Italia, a prescindere dalle scelte compiute, non è mai stata tanto demonizzata la posizione pacifista che confidava nell’indefesso sforzo delle diplomazie per la soluzione dei conflitti. E non si utilizzi a sproposito l’etica di Catone per giustificare il rifiuto di qualsiasi concessione al tiranno. L’Italia, come peraltro tanti Paesi del mondo, è avvezza ad intrattenere commerci con i regimi più sciagurati che ora addirittura si auspica intervengano come alleati contro il comune invasore. Ci sarebbe una lunga e raccapricciante lista da esibire.

E’ vero, è l’inevitabile esito della globalizzazione che con le sue interconnessioni ha creato reciproche dipendenze tra autocrazie e democrazie, talché ogni possibile “cordone sanitario” sarebbe destinato a sfilacciarsi, soprattutto quando si vorrebbe avvolgere un quasi-continente. E infatti l’Occidente che ha aderito alle sanzioni contro la Russia costituisce soltanto una piccola parte della superficie e della popolazione mondiale. Forse, contrariamente a quanto diceva l’Inghilterra al calar della nebbia sulla Manica, non sono gli altri ma noi stessi a rimanere isolati. E se questa è la condizione data e questi i reali rapporti di forza, bisogna proprio cambiare strategia.

Non siamo più alla vigilia dello “sbarco in Normandia”. Se Ulisse avesse affrontato il Ciclope direttamente avrebbe certamente terminato lì il viaggio suo e dei suoi compagni, invece ne è uscito affidandosi all’alternativa dell’ingegno. Fuor di metafora, lo scontro, quando è frontale e asimmetrico, non può condurre ad esiti diversi dalla testimonianza del martirio. In definitiva, l’atteggiamento bellicoso e guerrafondaio che ha conquistato tanti media e uomini politici, spesso più esibito per ragioni interne che per intimorire l’avversario, come le sfide elettorali francese e statunitense farebbero presumere, non ha proprio grandi chances di successo. E’ un fuoco di paglia, come dimostrano le guerre, soprattutto del nuovo millennio, che non hanno mai risolto alcun problema.

Il pacifismo può contare invece su di un significativo e crescente consenso di opinione pubblica trasversale alle nazioni e sulla capacità diplomatica di mostrare come la guerra in una economia globale non possa mai garantire un netto vantaggio per alcuno, talché la mediazione degli interessi in gioco si profila come una necessità oggettiva. Ricordiamo che il pacifismo di Gandhi riuscì a mettere in scacco il potente colonialismo britannico, senza colpo ferire. Ed è suggestivo oggi riflettere che fu proprio un grande russo, Lev Tolstoj, a ispirare la lotta non-violenta del Mahatma Gandhi, di cui sono testimonianza le pagine di un fitto carteggio tra i due (Bori PG, Sofri G, in Gandhi e Tolstoj – Un carteggio e dintorni, Il Mulino, Bologna 1985). Chissà cosa sarebbe accaduto oggi, viene da pensare, se 40 milioni di ucraini avessero incrociato le braccia davanti all’invasore russo. Forse, nel cuore dell’Europa, non sarebbe finita come nella piazza Tienanmen di quella stessa Cina che oggi, esattamente dopo 33 anni dalla carneficina e rimosso il Grande Timoniere, viene promossa a Grande Mediatore di Pace.

Ma allora dove sta l’utopia e dove il pragmatismo? Su quali coordinate geografiche si posiziona il confine tra Male e Bene? Forse però non si tratta solo di affidarsi ad un saggio pragmatismo o ad una mera scelta etica, quanto alla potenza di quella Necessità che, per dirla con Eschilo, governa tutte le cose, compreso quindi l’istinto di sopravvivenza della specie umana. E si spera quindi che proprio l’élan della biologia possa far breccia in una ragione obnubilata da una volontà autodistruttiva di dominio che finisce per abbattere anche il ramo dell’albero che la sorregge.

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